ARTE CONCETTUALE
Intorno alla metà degli anni ’60, durante l’indigestione di soggetti pop, alcuni intellettuali reagiscono con nuove proposte che vanno nella direzione di un’arte fredda, cioè slegata da qualsiasi suggestione visiva o emotiva. Assistiamo quindi a un processo di smaterializzazione dell’opera.
Il termine Arte Concettuale indica un gruppo di artisti americani che assumono un atteggiamento analitico nei confronti del linguaggio dell’arte. La parola “concettuale” viene usata la prima volta da Sol Le Witt in un articolo del 1967 “Nell’arte concettuale l’idea o il concetto è la parte più importante del lavoro” quindi con questo termine si vuole indicare un’arte focalizzata sul concetto che sta alla base dell’opera e non sull’opera in sé. Questi artisti operano centrando il loro lavoro sui processi, sugli atteggiamenti, sulle idee, più che sul risultato materiale finito. È un’arte che nega la materialità dell’oggetto artistico, nega il mezzo espressivo, nega il significato stesso della forma visiva, nega l’autonomia dell’opera (cioè il fatto che l’opera d’arte non parli di qualcos’altro). È quindi un’arte “smaterializzata”, cioè sempre meno dipendente dai materiali e dalla manualità. Gli artefatti tendono a sparire e le opere sono spesso foto, video o parole. Si tratta di una forma di comunicazione volutamente antiartistica, in cui gli oggetti spariscono quasi del tutto e si riconducono a semplici idee. Una delle influenze sono le opere dadaiste di Duchamp, per la valorizzazione dell’idea, del concetto dietro all’opera d’arte e per la valorizzazione dell’aspetto “linguistico” di alcune opere. Gli artisti spostano l’intera attenzione dall’oggetto materiale al concetto, fino a far coincidere l’arte stessa con la dimensione mentale. L’idea e la riflessione subentrano al manufatto. L’arte concettuale può considerarsi composta da tre aspetti: - le istruzioni, le performance e la documentazione; - il processo di realizzazione, il sistema di oggetti con piccole variazioni, la serie; - la parola e il segno. Ci sono artisti che danno istruzioni per usufruire delle loro opere, spersonalizzandole totalmente e ponendo così le basi per un atto performativo messo in pratica dal pubblico stesso. JOSEPH KOSUTH (1945 - ) Ha una formazione da intellettuale/filosofo e questo si vede nella sua considerazione dell’oggetto come un elemento irrilevante perché quello che gli interessa è solo l’idea. Le sue opere partono dai dubbi sulla possibilità che il linguaggio aderisca perfettamente alla realtà. E’ affascinato dalla sfera dei significati e individua in essi una realtà pari a quella dei fenomeni. Sembra voler spiegare come funziona la mente di una persona, sottolineando come la formazione di un pensiero avvenga sempre partendo da un atto di connessione tra fonti diverse. Dal 1966 Kosuth propone ingrandimenti di definizioni da vocabolari, come ready-made, estendendo l’assunzione del già fatto anche a elementi ideali, a nozioni. Lui è il più “rigido” tra gli artisti concettuali perché nelle sue opere c’è solo l’idea, il concetto. Però alla fine crea inevitabilmente degli oggetti (anche se si tratta solo di lamine con le definizioni) che sono esponibili e vendibili nel mercato dell’arte. ONE AND THREE CHAIRS (1965). Espone una foto di una sedia, la sedia stessa e una definizione del dizionario della parola “sedia”. L’artista si muove quindi su tre livelli di realtà. Utilizza la tridimensionalità dell’oggetto reale, l’immagine dell’oggetto e la definizione del termine linguistico. Si tratta così di una installazione che utilizza tre linguaggi. La sedia esposta rappresenta il linguaggio tridimensionale, poi è presente il linguaggio fotografico e quindi quello scritto. L’operazione che fa con la sedia consiste nel far ragionare l’osservatore sul rapporto tra le cose, le immagini e il linguaggio. La foto e il testo raccontano la sedia centrale in altri modi, non meno reali. Le parole e le immagini infatti possono creare altre dimensioni dell’esistere. Evidenzia le relazioni che intervengono nel pensiero quando si cerca di formulare un concetto, il quale deriva dalla cosa reale, dalla sua immagine e dalla sua rappresentazione verbale/logica. L’oggetto sedia è dunque definito in tre modi diversi, tutti altamente espressivi pur non essendo artistici. NOTHING (1966). Sono gigantografie del termine “nulla” come l’artista le ha trovate in diversi vocabolari. L’arte di Joseph Kosuth si emancipa dal suo supporto, è soggetta a un processo di dematerializzazione e ciò che ne resta è una sequenza di definizioni estratte dalle pagine di un vocabolario in una complessa dialettica tra significato e significante. La scelta è ambigua perché il nulla è quanto di più affascinante e di meno definibile si possa immaginare. Rappresentare il nulla significa, paradossalmente, impadronirsi di un concetto su cui la speculazione mentale si arresta. Il nulla di Kosuth si esaurisce nelle definizioni, scientificamente più o meno vere, anche se espressivamente “fredde”. BRUCE NAUMAN (1941 - ) Nauman sviluppa tematiche che riguardano l’ambiguità del linguaggio. Il suo lavoro però non esclude l’ambito dell’emotività (come fanno gli altri artisti concettuali), ma lo indaga. Il suo obiettivo è sottolineare la difficoltà di ogni comunicazione (anche fisica, corporea o gestuale). Inizia a lavorare facendo opere fondate soprattutto sull’impiego del linguaggio con frasi scritte con la luce al neon, poi passa a creare sculture, video, ambientazioni, nate da giochi di parole. ONE HUNDRED LIVE AND DIE (1984). E’ un impressionante pannello di scritte al neon che si accendono alternativamente. Ci si trova di fronte a quattro file di neon colorati in cui sono riportate venticinque brevi frasi. Nella prima e terza fila tutte le locuzioni terminano con “Die”, mentre nella seconda e quarta con “Live”. “Live and die/die and die/ sleep and die/ love and die” (ossia “Vivi e muori/ muori e muori/ dormi e muori/ ama e muori”), contrapposte a “Live and live/ die and live/ sleep and live/ love and live” (“Vivi e vivi/ muori e vivi/ dormi e vivi/ ama e vivi). Veder scritto con colori fluorescenti la parola “Morire” crea disagio, destabilizza: alla morte si collega, solitamente, il nero, l’assenza di luce, mentre il neon produce una forte luminosità. Inoltre il ritmo sincopato a cui si accendono le frasi, mette lo spettatore in uno stato d’ansia, come se ogni più piccola azione che compiamo possa essere decisiva per il nostro destino. Quindi l’esperienza diretta dello spettatore è protagonista dell’opera al pari del suo meccanismo formale. L’artista sprona lo spettatore a riflettere sui limiti e sulle contraddizioni del linguaggio e forse anche dell’esistenza umana. Da un lato le azioni del vivere che si manifestano nel quotidiano vengono messe in risalto proprio attraverso l’ombra del loro annientamento, senza cancellarne il loro effettivo valore. Si potrebbe quindi parlare di una continua presa di coscienza che ad ogni nostro atto l’opera della morte è sempre in agguato. Dall’altro, tuttavia, è presente una esaltazione del momento che non si cura della fine incombente, ma che si eternizza nel suo stesso compiersi. Le parole scelte non esprimono soltanto azioni ma anche sentimenti e concetti (ama, odia, bianco, rosso, etc.). Sono proposte senza alcun ordine gerarchico in una polarità di senso e, scardinando ogni apparente logica duale, arrivano fino al punto in cui vita si contrappone a vita e morte è contrapposta a morte (Live and Live / Die and Die). Vivere acquista il suo significato nella stessa vita e morire la sua ragione nella stessa morte. ON KAWARA (1932 – 2014) Le sue opere consistono in tele a olio nere o rosse su cui è dipinta una data. Minime differenze nel modo in cui è scritta la data ci fanno capire dove si trovava l’artista quando ha concepito l’idea. La data è la stessa riportata sul foglio di un quotidiano che imballa la tela, comprato dall’artista in quel giorno e in quel luogo. Ogni opera ricorda all’artista un suo particolare vissuto individuale o un importante fatto di cronaca collettiva, ma induce anche lo spettatore a domandarsi dov’era e cosa faceva in quella data. L’artista è interessato unicamente alla rappresentazione dello scorrere del tempo e le reazioni razionali o emotive che l’opera può suscitare sono molto più importanti del trascurabile effetto visivo prodotto da questi quadri, freddi e oggettivi, nei confronti dello spettatore. |
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