ALBERTO BURRI (1915 – 1995)
Alberto Burri si laurea in medicina e come ufficiale medico viene fatto prigioniero dagli alleati durante la guerra. Una volta intrapresa la carriera artistica nega qualsiasi forma a favore del carattere puramente materiale dell’opera. Usa materiali poveri, ordinari, di scarto, esclusi dalla tradizione della pittura: sacchi di iuta, fogli di cellophane, legni bruciati, lamiere saldate. Sono materiali che in lui evocano la guerra (la tela di sacco, il legno bruciato) e quelli moderni tipici del dopoguerra, come il bitume e la plastica. Tutto il suo lavoro si incentra sulla ricerca dell’espressività propria dei materiali, specialmente quelli “vissuti”, invecchiati e consumati dal tempo. La materia non si finge, non si rappresenta, ma porta in se stessa ogni traccia di vissuto, un’ombra scura di morte e insieme la possibilità di essere ricomposta in un ordine, riscattata a una vita e a bellezze nuove. E’ interessante notare che l’artista ricerca la bellezza in tutte le sue opere e la trova proprio nelle “cicatrici” del materiale, nei segni lasciati dagli avvenimenti esterni, soprattutto da quelli più drammatici. I colori usati sono sempre quelli primari con una predilezione per il rosso, che riporta all’idea del sangue. I titoli, tranne alcune sigle, si riferiscono al colore dominante nell’opera o alla materia con cui è stata creata in modo da non condizionare l’immaginario dello spettatore, suggerendo eventuali significati simbolici. Quindi agli osservatori non è chiaro cosa stanno guardando, ma sentono che sono immagini che li disturbano. SERIE DEI SACCHI (dal 1949). Sono delle composizioni realizzate con vari brandelli di tela di sacco, uniti da grossi punti chirurgici di sutura. Sono sacchi laceri, sporchi, a volte anche bruciacchiati, recuperati dalla realtà, usati e consunti. Sono sacchi con cui arrivavano in Italia gli aiuti degli americano e spesso recano bandiere o scritte facilmente riconoscibili. Non sono collage o ready-made, queste opere ci narrano una storia, parallela a quella degli uomini che li hanno usati. Sono materia grezza ricomposta secondo principi estetici. Sono opere cariche di un senso di consunzione aspra e viscerale, ma anche pervasa da un ponderato equilibrio di rapporti compositivi tra materiali, spazi e colori. Burri parte dalla materia e la trasforma in arte al contrario di tutti gli altri artisti informali che degradavano la pittura facendola diventare materia. L’artista ne incolla diversi strati, in modo da creare un’immagine a rilievo, che neghi la bidimensionalità tipica dello spazio pittorico. La tela, che da sempre è stata usata come supporto per l’opera, diventa essa stessa materia pittorica; Burri introduce così un nuovo linguaggio artistico. Negli strappi e nelle bruciature, l’artista ricerca gli indizi della vita, dei suoi dolori e delle sue miserie. I sacchi tagliati rimandano all’idea di ferita, di lacerazione e di sutura. Inoltre Burri trova nell’aspetto dimesso della iuta, il fascino delle cose povere che tentano dir esistere al tempo. SERIE DEI GOBBI (dal 1950). Nei dipinti “gobbi”, la tela è spinta in avanti da una sommaria armatura in metallo (altre volte è un ramo d’albero) incastrata nel telaio. L’artista quindi modella la superficie di supporto, manifestando, a poco a poco, il desiderio di uscire dal quadro. I quadri stessi sono concepiti come strutture a tre dimensioni. Con questa serie Burri riesce dove avevano fallito i cubisti, ottenendo il sovvertimento della prospettiva rinascimentale: l’opera non vuole più rappresentare una porzione di realtà creando un prolungamento dello spazio in profondità, ma l’opera si dilata direttamente nello spazio di riguardo dello spettatore. SERIE DELLE BRUCIATURE (dal 1954). Burri lavora plastiche, legno e ferro con una fiamma ossidrica, perché il fuoco è l’elemento naturale che riesce a piegare le materie e ad amalgamarle insieme. Li buca con la fiamma ossidrica fermandosi poco prima della combustione totale. La materia, con la combustione, diventa di nuovo materia vivente colta nel flusso energetico e incontenibile che la percorre. L’artista usa la fiamma ossidrica come fosse un pennello, per evocare colore e sfumature che la stessa natura offre. Negli anni Sessanta la plastica sembra essere la soluzione a ogni problema: si può utilizzare per produrre oggetti belli, colorati, resistenti, economici e riproducibili all’infinito. Il telo di plastica però, a causa della combustione operata dall’artista si lacera, si piega, si annerisce, ne emerge così la sua fragilità. Attraverso i buchi si può vedere la superficie della tela retrostante dipinta di nero. Burri non distrugge, ma crea forme con un nuovo mezzo espressivo. Crea così immagini astratte, piene di fori e grinze, capaci però di evocare la sofferenza attraverso quella subita dalla materia. “Torturando” la materia col fuoco ci stimola l’empatia e ci fa sentire straziati dal dolore. Possiamo dunque interpretare le opere come metafore dell’animo umano che, nonostante si creda spesso invincibile, rimane ferito e segnato dagli eventi della vita. SERIE DEI CRETTI (dal 1970). L’artista stende una superficie monocroma di alto spessore di un impasto fatto di colla e polveri minerali e la lascia asciugare e crettare, come terra al sole, in modo naturale e imprevedibile. Quindi, usando vari materiali, ottiene queste superfici irregolarmente crettate che rimandano ai concetti di aridità e miseria. La ragnatela di solchi che si ottiene dà alla materia una consistenza e un significato autonomi. Le opere suggeriscono stati d’animo profondi, tensioni interiori, lacerazioni dirompenti. La materia non diventa però simbolica, rimane la principale protagonista dell’opera, assumendo il valore di una testimonianza di vita, fatta di contraddizioni, solitudine e dolore. GRANDE CRETTO (1984-2015). Tra il 14 e il 15 gennaio 1968 un terremoto terribile scuote la Valle del Belice (Sicilia occidentale) provocando più 200 vittime e distrusse l’intero tessuto urbano. Burri compatta le macerie del centro storico di Gibellina in cumuli (alti circa 1,70 metri) e le forma provvisoriamente con del filo metallico, ricopre infine il tutto con delle gettate di cemento dando vita a un labirinto monocromo di circa 80.000 metri quadri dal fortissimo impatto visivo ed emotivo. Nel compiere questa azione viene rispettato il tracciato viario originale della città, tanto che il cretto è percorribile dai visitatori lungo quelle che erano le strade del paese ormai perduto, trasportandolo in un luogo surreale e silenzioso. L’opera appare come una moderna Pompei nella quale il calcestruzzo ha compiuto la stessa azione della lava. Ognuno dei 122 “tasselli” che compone l’opera assume l’aspetto simbolico della lastra tombale. Nel complesso il lavoro si configura invece come un vero e proprio sudario nel quale le fattezze del defunto sono rimaste impresse nella tela. |
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LUCIO FONTANA (1899-1968)
Inizia come scultore e poi si dedica alla pittura dove non smette di muovere le superfici del quadro; sta nella zona di passaggio tra la bi e la tridimensionalità. I pittori, per secoli, hanno affinato tecniche per ingannare lo sguardo e dare effetti di tridimensionalità sulla tela. Fontana rompe con l’illusione e ricerca una spazialità nuova. Tutto è incentrato sul gesto dell’artista. Dal periodo della serie dei buchi, le sue opere prendono il titolo di “concetto spaziale”, “concetto” perché non usa la materia ma solo il pensiero, “spaziale” perché cerca una nuova spazialità (dove invece era sempre stata solo simulata). Spesso aggiunge nel titolo anche la parola “attese” alludendo all’andare oltre la tela e allo spazio circoscritto del quadro. Una serie di fotografie dell’epoca testimoniano come Fontana, prima di passare all’azione, si concentrasse intensamente davanti alla tela. SERIE DEI BUCHI (dal 1949). Con un punteruolo Fontana buca la tela. Il suo è un gesto secco, che non prevede l’intermediazione della materia. Il loro significato va ben oltre l'essere elementi puramente grafici sulla tela, in quanto sono considerati vere e proprie aperture verso uno spazio ulteriore. Il concetto spaziale è un’opera che mette in discussione la bidimensionalità dello spazio pittorico mostrandoci che è solo una superficie in cui ogni rappresentazione è virtuale e illusoria. I buchi vengono avvicinati in agglomerati di buchi, secondo una concezione estetica e un gusto raffinato. La superficie della tela si riempie quindi di crateri irregolari, come se fosse un cielo stellato. Queste opere pittoriche sono quindi caratterizzate da costellazioni di "buchi", effettuati sulla superficie della tela. La serie dei "buchi" viene portata avanti con continuità anche negli anni successivi. I primi lavori presentano vortici di buchi; dal '50 in poi i vortici lasciano spazio a buchi organizzati in base a sequenze ritmiche più regolari. SERIE DELLE INSTALLAZIONI AMBIENTALI (dal 1949). Sono opere in cui Fontana usa, per primo, la luce elettrica in modo artistico. Usa lampade nere di Wood che danno contorni violacei alle cose o tubi al neon che danno un senso di spaesamento allo spettatore. Gli Ambienti spaziali riflettono i temi ricorrenti della ricerca ambientale di Fontana: sfalsamento percettivo fisico e visivo dello spazio, riduzione dei colori alla monocromia, centralità della luce al neon o di Wood, costruzione di corridoi e spazi labirintici. Estendendosi oltre i confini classici della scultura, all’incrocio tra arte, architettura e design, i lavori creavano dunque una connessione tra l’oggetto e lo spazio circostante. Fontana univa così elementi caratteristici della pittura, della scultura e dell’architettura per superare le forme e le idee più tradizionali di questi tre linguaggi artistici, creando uno spazio percorribile ed esperibile dal visitatore. Attraverso l’utilizzo di materiali non convenzionali come la luce di Wood e la pittura fluorescente, che alteravano o spazio circostante, l’oggetto scultoreo perdeva la sua forma plastica statica. Fondamentali nella concezione dell’opera erano state anche la percezione e l’esperienza diretta del visitatore, non statica, ma dinamica e coinvolta. Infatti con queste luci inventa ambienti labirintici e fosforescenti che mettono in crisi il sistema percettivo di chi vi entra. Sono installazioni integrate negli spazi interni di edifici. Così lo spazio non ospita più l’opera d’arte, ma diventa esso stesso opera che accoglie i visitatori. SERIE DEI TAGLI (dal 1960). Si tratta di tele monocrome, dipinte con colori forti e puri, “ferite” da uno o più squarci verticali inferti con un gesto energico e risoluto. Queste opere pittoriche presentano uno o più tagli, netti e regolari, operati con l'intento di oltrepassare la superficie della tela. I primi lavori di questo ciclo hanno la superficie ricoperta quasi sempre da aniline, sostituite dall'idropittura nel corso dell'evoluzione di questo tipo di opere. Fontana depura ulteriormente la forma, portandola a un’essenzialità minimale. I tagli rappresentano l'espressione più famosa dello Spazialismo. L’artista taglia la tela in un atto di estrema concentrazione. Dal punto di vista prettamente tecnico, la loro realizzazione è solo apparentemente semplice. La sicurezza del maestro nell'incidere la tela era imparagonabile. I tagli definiscono in modo univoco la tela, concretizzando uno spazio tridimensionale, in cui le ombre generate dalle fenditure sono reali e non ottenute con l'artificio pittorico. Viene così meno la tradizionale distinzione tra pittura, scultura e spazio dello spettatore. Dal bianco al nero, dalla nuova tridimensionalità dei tagli, dei lembi del taglio e delle ombre che creano, Fontana ci mette davanti a una questione quasi metafisica. L'osservatore, attraverso il taglio, sembra portato a entrare nello spazio del quadro, in una dimensione infinita. Dentro ai tagli scorgiamo un aldilà, un luogo oscuro e indefinito. |
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