IL PRIMO QUATTROCENTO IN TOSCANA
Il linguaggio rinascimentale non comportò un immediato mutamento di rotta nell’arte fiorentina; non ci fu una conversione di massa alle novità di Brunelleschi, Donatello e Masaccio perché molti, inizialmente, le percepirono come troppo radicali.
L’affermazione del linguaggio rinascimentale fu lenta e progressiva e un ruolo particolarmente importante fu svolto da quegli artisti che riuscirono ad accordare le novità rinascimentali con la tradizione gotica, creando quindi uno stile più gradito al pubblico.
L’affermazione del linguaggio rinascimentale fu lenta e progressiva e un ruolo particolarmente importante fu svolto da quegli artisti che riuscirono ad accordare le novità rinascimentali con la tradizione gotica, creando quindi uno stile più gradito al pubblico.
LORENZO GHIBERTI (1378 – 1455)
Orafo, scultore, architetto e scrittore d’arte si formò nella bottega del padre dove apprese le arti scultoree, delineando il suo stile tardo gotico. Le caratteristiche di questo stile sono il naturalismo e l’attenzione ai dettagli, una rivalutazione dell’arte classica, utilizzando una prospettiva più intuitiva che scientifica.
Accorda la tradizione del Gotico internazionale a quella del primo Rinascimento, codificando un linguaggio elegante, pacato, ricco di preziosità, ma che tiene presenti le novità coeve. 2° PORTA DEL BATTISTERO DI FIRENZE (1403 – 1424). Si ispira alla 1° porta di Andrea Pisano e la compone con 28 formelle quadrilobate con la raffigurazione delle storie della vita di Cristo, dei Padri della Chiesa e degli Evangelisti. Il lunghissimo arco cronologico dell’esecuzione permette di vedere l’evoluzione dalle forme gotiche (rintracciabili nella Crocifissione) a quelle rinascimentali (nella Flagellazione). Ghiberti riesce a conciliare la tradizione scultorea del Gotico internazionale con una più realistica rappresentazione delle masse e dei volumi. Nonostante il persistere di una certa rigidità medievale, incomincia anche ad affrontare problemi prospettici. PORTA DEL PARADISO (Battistero di Firenze, 1425 – 1452). L’Arte dei Calimala decise di affidare a Ghiberti anche la 3° porta del Battistero, dedicata alle storie dell’Antico Testamento. La porta è divisa in dieci formelle quadrate (semplifica lo schema rispetto alle precedenti). Intorno a queste si trova una cornice a listelli che ospita 24 testine sporgenti che ritraggono profeti e sibille. Il linguaggio di Ghiberti è coltissimo, carico di citazioni dall’antico e insieme raffinato e pacato. Ogni ricordo dell’arte medievale è cancellato. La straordinaria perizia tecnica si concentra sulla robusta modellazione dei personaggi e sulla rappresentazione di complessi paesaggi e architetture già prospetticamente rinascimentali. Usa anche la nuova tecnica dello stiacciato di Donatello. |
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BEATO ANGELICO (1395 – 1455)
E’ tra i primi seguaci delle novità rinascimentali, che però armonizza felicemente con la cultura gotica creando forme pure, risaltate da una limpida gamma cromatica.
I colori sono innaturalmente vivaci e la luce è uniforme e perennemente mattutina, ciò rimanda a una visione simbolica della realtà, in cui fede e ragione coesistono. I suoi personaggi, pur se dotati di corpi solidi e ben disegnati, risultano sempre sospesi in un’atmosfera di grande e solenne spiritualità. CONVENTO DI SAN MARCO (1438 – 1452). Decide un preciso piano decorativo del complesso, ispirato alla stessa linea di purezza e di armonia del progetto architettonico di Michelozzo. In ogni cella viene dipinto un episodio del Nuovo Testamento, presentato come oggetto di meditazione. La composizione delle figure è semplice, di facile lettura, priva di inutili dettagli decorativi, lo scopo infatti era di fornire ai frati uno spunto per il raccoglimento e per la preghiera. Negli affreschi viene tenuta in considerazione il riquadro architettonico semicircolare. Nelle scene inserisce gruppi di frati che fanno da spettatori e di santi domenicani (Domenico, Caterina da Siena, Pietro martire e altri) nelle vesti di mediatori tra l’evento dipinto e la realtà. Sono opere “moderne” in quanto seguono i nuovi canoni prospettici che l’Angelico riprende da Masaccio. Il risultato tuttavia è profondamente diverso. I colori, chiari e luminosi, le figure esili e allungate e la luce nitidissima, contribuiscono a creare atmosfere d’intonazione fortemente spirituale, prive di pathos. L’ANNUNCIAZIONE viene ambientata dentro a un severo chiostro. I due personaggi sacri si trovano al riparo di un loggiato coperto da archi a tutto sesto sorretto da colonne in stile corinzio (simili a quelle reali di Michelozzo). Lo spazio è strutturato con una prospettiva di nitida e geometrica semplicità. La parete di fondo è interrotta da una apertura che conduce in una stanza che pare vuota. Al suo interno si nota una piccola finestra con inferriate a croce che dà sulla vegetazione esterna. Questi elementi alludono a una dimensione intima. Si crea quindi una progressione di ambienti, dal più statico e frontale della Vergine, al più libero ed espanso del bosco. Questa progressione crea una curva compositiva che porta lo sguardo dal primo piano allo sfondo con un movimento accelerato. Questo movimento è creato dalla progressiva riduzione di grandezza degli spazi dipinti. Attraverso l’uso di una gamma cromatica ridotta, ma luminosa, crea un’immagine concentrata di intenso spirito ascetico (di gusto miniaturista). E’ un esempio di pittura di linea, che genera curve e controcurve. Il chiaroscuro, è presente seppur moderato. Le fisionomie, i gesti e le espressioni sono però idealizzati per raccontare la realtà soprannaturale e divina. Il maestro volle così ambientare le storie religiose raffigurando personaggi e ambienti che esprimessero bellezza e perfezione. L’illuminazione proviene da sinistra e coincide con la finestra che illumina la stanza nella quale fu dipinta. In questo modo lo spazio virtuale dell’opera e lo spazio fisico vengono collegati e l’osservatore sperimenta un maggior coinvolgimento. Una novità compositiva è rappresentata dalla disposizione diagonale delle figure dell’Arcangelo Gabriele e di Maria. Questo espediente offre una maggiore profondità dello spazio in primo piano. Nel GIUDIZIO UNIVERSALE viene proposta una visione prospettica di scenografica modernità. Alla danza dei beati (sulla sinistra) che risente degli influssi della pittura tardo-gotica, si contrappone (sulla destra) una visione crudelmente realistica dell’inferno in cui orribili demoni infieriscono con crudeltà sui dannati. In ciascuno dei due gruppi si trovano persone di tutte le classi sociali: re, papi, principi, vescovi, monaci, aristocratici o semplici popolani. Al centro, in uno scorcio suggestivo, una serie di tombe scoperchiate fa da tramite tra realtà terrena e divina, che è rappresentata dal trionfo celeste del Cristo in trono sospeso in un dorato tripudio di cherubini, angeli, santi e beati. Tutti i personaggi, nonostante il perdurare del gusto raffinato per i particolari minuti (tipico del Gotico), assumono una chiara e scientifica collocazione spaziale, secondo le regole esatte della prospettiva cromatica. L’opera possiede una scansione dei piani in prospettiva che dimostra un precoce interesse per l’impostazione rinascimentale dello spazio. |
MICHELOZZO (1396 – 1472)
Fu scultore e architetto allievo di Ghiberti e attivo divulgatore delle ricerche architettoniche di Brunelleschi.
Diventò architetto ufficiale di Cosimo dei Medici e si occupò spesso di risistemare strutture preesistenti (soprattutto le ville sparse nel contado mediceo). Così facendo diffonde il linguaggio di Brunelleschi in tutta la Toscana. PALAZZO MEDICI-RICCARDI (1444 – 1464). Fu commissionato da Cosimo il Vecchio come "palazzo di famiglia" e fu costruito in una zona allora decentrata. Divenne il prototipo del palazzo rinascimentale. La forma del palazzo è semplice, un cubo massiccio forato al centro da un cortile porticato. Il lato "di fondo" dà poi accesso a un giardino. Esternamente il palazzo è un blocco poderoso e compatto in pietra forte a vista, alleggerito solo dal gioco di chiaroscuro che crea la decorazione a bugnato. Le aperture delle bifore sono inquadrate da archi a tutto sesto. Le bifore avevano un’origine medievale, ma qui predominano gli spazi aperti, quindi attenua il carattere difensivo del paramento murario in pietra. Divide i frontoni esterni con fasce marcapiano in tre zone digradanti verso l’alto, diversificate dalla lavorazione del bugnato: più aggettanti e rustici alla base, in alto più eleganti, appena accennati e regolari. Questa progressiva scalatura delle sporgenze dei bugnati crea un effetto decorativo di luci e ombre che va dal massimo contrasto al piano terreno, al minimo contrasto all’ultimo piano. Annulla così al caratteristica di casa-fortezza medievale e ottiene una variazione quasi pittorica. In basso corre una panca di pietra usata per sedersi sulla strada. L’interno, con la successione dell’ingresso voltato, del cortile quadrato e del giardino sembra corrispondere alla domus vitruviana decantata dall’Alberti. Sui quattro lati del cortile ripropone il disegno della facciata dello Spedale degli Innocenti di Brunelleschi. Anche il cortile si presenta su tre livelli: in basso c'è un portico con colonne in pietra serena e archi a tutto sesto; nel secondo ordine troviamo bifore simili a quelle in facciata; al secondo piano c'è una loggia architravata con colonnine ioniche. |
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LEON BATTISTA ALBERTI (1404 – 1472)
Fu architetto, teorico, umanista e scultore. Teorizza ciò che Brunelleschi aveva realizzato materialmente. Mette in ordine e rende ufficiale le innovazioni dei primi decenni del Quattrocento. Con i suoi libri il "De pictura" e il "De re aedificatoria" contribuì a diffondere le novità rinascimentali in numerose città italiane.
Nelle sue opere cerca di recuperare la monumentalità dell’arte romana e usa il modulo quadrato per dare le giuste proporzioni alle facciate. PALAZZO RUCELLAI (1450 – 1460). Risistemò la fronte del preesistente edificio, il modello di riferimento locale era Palazzo Medici-Riccardi di Michelozzo. Alberti infatti divide la facciata esterna in tre settori orizzontali, distinti da cornicioni marcapiano e scanditi verticalmente da lesene. Al centro di ogni settore inserisce una finestra bifora, di ascendenza medievale, insieme al bugnato poco sporgente che alleggerisce la facciata. Per la prima volta, sulla facciata di un palazzo privato, venivano impiegati gli ordini classici (capitelli e decorazioni), pur adattati al gusto quattrocentesco; e nella successione di tre livelli (di paraste) che spiccano da uno zoccolo in basso trattato con motivi a rombo (il riferimento è a un muro “reticolato” romano). Il bugnato ha gli spigoli leggermente smussati e i giunti sono ampi e profondi. In questo modo si creano ombre nette che scandiscono la superficie in un reticolo solo apparentemente casuale. Caratteristica è la “panca” che corre in basso sull’esterno dell’edificio e rimanda all’idea di un’architettura utile per l’uomo. La tradizione medievale dei palazzi fiorentini (si pensi alle quasi “coeve” realizzazioni di Palazzo Medici o di palazzo Strozzi) viene completamente modernizzata non solo nella riproposizione di forme classiche (ad esempio nella variazione dei capitelli), ma anche nell’uso del rivestimento in pietra anch’esso sulla base degli esempi delle rovine romane e delle descrizioni del De Architectura di Vitruvio, l’antico scrittore latino dia architettura. SANTA MARIA NOVELLA (1470). Doveva completare la facciata, rimasta incompiuta al primo ordine di arcate dal 1365. L’architetto volle ridurre al minimo il contrasto tra la parte preesistente e il suo completamento e infatti in quest’opera mostra la sua spiccata capacità di adattarsi alle situazioni più complesse. Usa il rivestimento a tarsia marmorea, prediletto dal Romanico fiorentino e così armonizza l’antico col moderno. La parte inferiore viene lasciata intatta inserendo però il maestoso portale centrale, le colonne e i pilastri laterali. Il portale monumentale di accesso è trattato come un tabernacolo ricco di riferimenti all’antichità classica nella scansione dell’ordine architettonico, ma anche nelle decorazioni a festoni. A essi fu sovrapposta un’alta cornice a motivi geometrici che raccorda primo e secondo ordine della facciata. La parte più alta è scandita da paraste e termina con un frontone triangolare di disegno classico, fornendo un equilibrio estremamente armonioso grazie a un approfondito studio di tutte le componenti proporzionali e delle misure dei singoli elementi. All’interno del timpano triangolare c’è un grande sole, simbolo quattrocentesco di rinnovamento spirituale che arricchisce la composizione di caratteri simbolici. Le due bellissime volute laterali mascherano l’andamento delle navate minori e sono trattate con un raffinato motivo decorativo marmoreo paleocristiano. L’armonia è basata su una sottile trama di rapporti modulari e si fonda sulla ripetizione della figura geometrica del quadrato e dei suoi derivati. Infatti la facciata è inscrivibile in un quadrato; la parte inferiore è esattamente la metà della superficie del quadrato, quella superiore equivale a una quarto. TEMPIO MALATESTIANO (Rimini, 1450). Era una chiesa preesistente gotica che il signore di Rimini vuole rimodernare per farla diventare il mausoleo della famiglia. Alberti trasforma l’esterno della chiesa, circondandola (senza alterarla), da un involucro in marmo bianco ispirato agli archi di trionfo romani. Infatti la facciata triplica la struttura dell’Arco di Augusto di Rimini, creando la sensazione di un arco di trionfo a tre fornici. Tra un arco e l’altro inserisce delle piccole semicolonne in stile corinzio e sopra il portale un piccolo timpano triangolare. Unifica il tutto con un alto zoccolo ispirato a quello dei templi romani, che corre intorno all’edificio. Nei fianchi viene ripreso il motivo delle profonde arcate classiche che riprendono la forma di un acquedotto romano. Sui fianchi, dietro agli archi, si vedono le finestre gotiche originali, in posizione non centrata rispetto agli archi. Alberti sceglie infatti di non tenere in considerazione il ritmo delle aperture preesistenti perché vuole dare all’edificio un aspetto completamente nuovo e rinascimentale. All’interno si possono ancora vedere alcune parti dell’antica chiesa gotica con gli inserimenti rinascimentali. Il corpo presenta una navata unica che termina nel grande arco a tutto sesto del presbiterio. Sui lati si aprono le cappelle di forme gotiche (con archi a sesto acuto e volte ogivali). La ristrutturazione rimane però incompiuta e infatti mancano le parti della copertura, del transetto e dell’abside. Anche se è rimasto incompiuto, questo edificio è un organismo plastico e articolato, con un vivace movimento di pieni e vuoti, piani in rilievo e in profondità. Esiste quindi un forte contrasto di luce-penombra, volume-cavità, solidità-spazio vuoto. Il tutto in un insieme equilibrato e dinamico. |
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FILIPPO LIPPI (1406 – 1469)
Interpreta la lezione di Masaccio a cui affianca una fresca vena narrativa e un’inarrestabile immediatezza espressiva.
Conosce anche i modelli fiamminghi e si nota dalla sua sensibilità verso la resa degli ambienti e della luce, delle stoffe e dei materiali preziosi. Accanto allo studio dei fenomeni luministici acquista più importanza l’uso della linea intesa come mezzo dinamico ed espressivo. Rispetto a Masaccio i personaggi da lui rappresentati, pur sempre solidamente volumetrici, appaiono più dolci e idealizzati, mentre i colori risentono della tersa e astratta luminosità del Beato Angelico. Gli sfondi sono naturali e si integrano perfettamente con le figure rappresentate. Le sue caratteristiche stilistiche sono: la grande sensibilità per la morbidezza delle forme e l’uso di linee ondulate e delicate. La luce, molto diffusa, aumenta la morbidezza delle figure. |
PAOLO UCCELLO (1397 - 1475)
Fu il più importante sperimentatore della prospettiva e divenne quasi ossessionato dalla ricerca di scorci particolari. Questo lo porta a sperimentare le estreme conseguenze delle costruzioni prospettiche.
I colori sono spesso quelli innaturali del Gotico Internazionale trasferiti però in ben congegnate composizioni prospettiche. MONUMENTO A GIOVANNI ACUTO (1436). Il condottiero Giovanni Acuto tiene in mano un bastone che simboleggia il comando e indossa un’armatura riservata alle uscite ufficiali. L’animale inoltre è bardato con finimenti da parata, briglie e sella di epoca rinascimentale. Le figure dipinte presentano un chiaroscuro scultoreo che valorizza le masse muscolari. Infatti il contrasto tra le zone d’ombra e le parti illuminate mette in evidenza l’anatomia con taglio descrittivo. La tinta monocroma grigia ricorda la statuaria bronzea, contrasta col colore della sella, delle briglie e dello sfondo ed esalta i volumi. Il profilo è perfetto e netto e trasmette fermezza, serenità ed equilibrio ed esclude qualsiasi senso di movimento. Elimina ogni orpello decorativo per concentrarsi sulla sperimentazione prospettica. Per dare un senso di incombenza al monumento dipinto, affresca il poderoso gruppo di cavallo e cavaliere, geometricamente definito, secondo una visione perfettamente frontale (cioè dal punto di vista di un osservatore che sta alla loro altezza), mentre il sarcofago su cui appoggia è raffigurato in forte scorcio dal basso (secondo il punto di vista reale dello spettatore). La visione dal basso, anche delle due figure, avrebbe evidenziato troppo la pancia del cavallo e poco la figura umana. BATTAGLIA DI SAN ROMANO (1440). La tavola faceva parte di un ciclo di tre dipinti che celebrava la vittoria dei fiorentini contro i senesi. Questo pannello rappresenta il momento in cui il capitano senese (al centro) viene colpito dalla lancia nemica, mentre il suo cavallo si impenna. Il comandante senese viene quindi disarcionato, i cavalli caduti giacciono nel caos di lance spezzate, gli altri cavalli scalpitano e i soldati cadono nel mezzo del dipinto. Il dipinto si struttura su nette linee diagonali e su una rigorosa prospettiva. Dirigendosi verso un punto di fuga nascosto dietro il cavaliere, le linee della prospettiva si sviluppano lungo le lance spezzate e abbandonate al suolo che danno profondità al campo di battaglia e contrastano in modo netto con quelle sollevate dai soldati che attendono la carica. I cavalli sono i veri protagonisti e hanno grande importanza. Questi sono dipinti da vari punti di vista: da dietro, da sotto, di fronte; tutte le figure possiedono una forte tridimensionalità grazie alla capacità dell’artista di applicare la prospettiva anche al corpo degli animali. Inoltre sono illuminati in modo quasi teatrale e spesso gli zoccoli danno l'impressione di uscire dal piano dell'immagine per occupare lo spazio dell'osservatore. I cadaveri dei soldati e i cavalli caduti sono rappresentati in scorci incredibili (compressioni degli oggetti in modo che sembrino recedere nello spazio) che suggeriscono la prospettiva e il senso di profondità. Mentre le singole figure, i dettagli delle armature, le bardature, le lance e gli stendardi sono molto realistici, la composizione è stranamente statica e idealistica e questo aspetto rimanda alla tradizione medievale. Infatti, nonostante la violenza, non si vede sangue e l'accumulo di dettagli riduce, invece di accrescere, la tendenza al realismo, sostituendo all'immagine di uno scontro bellico feroce quella di uno sfarzoso torneo cavalleresco. La mischia dei soldati, paradossalmente bloccata, quindi manifesta la spigliata fantasia nell’uso di colori irreali e nella semplificazione schematica di soldati e cavalli, studiati come solidi geometrici posti a segnare direttrici spaziali della scena. Sullo sfondo, che l'artista divide con siepi regolari, sono raffigurate una serie di incantevoli scene di caccia, in cui i cani rincorrono le lepri. Il cacciatore e gli animali, nonostante siano più piccoli delle figure in primo piano, risultano troppo grandi e la disparità tra la scena di battaglia e quelle di caccia sullo sfondo avvicinano l'opera più a un arazzo medievale che a un dipinto rinascimentale. STORIE DI NOE’ (Chiostro S. Maria Novella di Firenze, 1447 – 1448). In un’unica lunetta rappresenta due episodi: a sinistra il Diluvio e a destra la recessione delle acque. La lunetta ha una composizione molto affollata e complessa, con due costruzioni piramidali ai due lati, che rappresentano due vedute simmetriche dell'arca di Noè: a sinistra la scena del diluvio vera e propria, tra uomini disperati che cercano invano di salire sull'arca, a destra invece l'uscita dei sopravvissuti. Sono raffigurati secondo due punti di vista incrociati e questo, insieme all’irrealtà dei colori, accentua l'espressività dell'episodio, trascinando uomini e cose in un movimento che ha il suo culmine nella parte centrale. I personaggi, che cercano invano di salire, sono scorciati con violenza, da quelli monumentali in primo piano, fino a quelli più piccoli sullo sfondo. Al centro si vedono una serie di sfollati dal diluvio. Le pose sono studiate con cura, incastrate l'una nelle altre. L'effetto generale è quello di una scena onirica e allucinata, dove la prospettiva non è il mezzo per dare un ordine logico e misurabile allo spazio (come in Masaccio), ma uno strumento autonomo e irrazionale, dove gli uomini sembrano congelati in azioni innaturali. A destra si vede l'arca sotto un altro scorcio, dalla quale sta uscendo Noè, nell'atto di prendere il ramoscello d'ulivo dalla colomba. Spicca qui un personaggio maturo in piedi che è rappresentato sulla terraferma in atto di benedire mentre guarda attorno a sé la distesa di cadaveri, ordinatamente disposti nella griglia prospettiva, secondo i modi più tipici di Paolo Uccello. Da notare sono i virtuosismi nella rappresentazione dei "mazzocchi", copricapi a forma di tori sfaccettati, dei quali restano numerosi studi di prospettiva di mano di Paolo Uccello. C’è una disumanizzazione dei personaggi che appaiono in pose innaturali. Volutamente innaturale è anche la gamma cromatica, costituita da colori saturi di luce e smaltati. Orizzonte e punto di vista sono rialzati e danno il singolare effetto di incombere sullo spettatore. |
ANDREA DEL CASTAGNO (1421 - 1457)
Il suo stile personalissimo fu influenzato da Masaccio e Donatello, dei quali sviluppò in particolare la resa prospettica, il chiaroscuro plastico, che drammatizzò con l'uso di tinte più scure, e il realismo delle fisionomie e dei gesti, talvolta così esasperato da raggiungere esiti espressionistici.
Il suo stile è caratterizzato da un linguaggio forte con personaggi avvolti in panneggi pesanti e voluminosi che sembrano gonfiati dal vento e con la presenza di una luce brillante e chiara. Nelle sue opere risalta il realismo del gesto e della fisionomia, talvolta portato ai massimi livelli, quasi a sfiorare soluzioni espressionistiche. ULTIMA CENA (1450). E’ ambientata in un piccolo edificio con la parete anteriore assente, in modo da permettere allo spettatore la visione dell'interno. Il vano a specchiature marmoree di gusto classico, fa da sfondo alle figure degli Apostoli, chiuse in contorni spessi, che sembrano quasi sbalzate dal fondo della scena, illuminate da una luce fredda e tagliente che ne sottolinea l’intensità emotiva. L'ambientazione è curata nei minimi dettagli: dalle tegole del tetto, al soffitto a quadrati bianchi e neri, dal pavimento alle pareti laterali, fino ai due muri in laterizio che chiudono la scena a destra e a sinistra. Tutto è inquadrato in una prospettiva rigorosa, con un forte scorcio laterale, dove tutti gli elementi hanno una precisa collocazione geometrica. L’affresco deve adattarsi al riquadro molto allungato e Andrea del Castagno pensa a una composizione coerente al formato. Per questo motivo pone la tavola in orizzontale e separa Giuda dagli altri. Gli atteggiamenti degli Apostoli sono individualizzati, ma tutti i volti sono accomunati da una forzatura espressiva che, attraverso linee arcate, sottolinea zigomi, occhi e naso (volutamente estremizzati sono i toni cupi usati per la figura di Giuda). L’autore insiste sulla rappresentazione dei volti e sull’espressione dei singoli personaggi; gesti e posizioni sono tutte differenziate. CICLO DEGLI UOMINI E DONNE ILLUSTRI (1450). Il ciclo è composto da affreschi che si dispongono a gruppi di tre su ciascuna parete, più la parete centrale dove si apriva la porta, decorata dalla vaporosa tenda dove si trovano la Madonna col Bambino, gli Angeli reggicortina, Adamo ed Eva. La prima parete è occupata da personaggi che si distinsero nella politica, dentro e fuori Firenze. La seconda è dedicata alle donne. La terza è dedicata ai letterati fiorentini. E’ caratterizzato dall’uso sapiente della prospettiva a fini illusionistici. Delle finte nicchie ospitano figure di uomini e donne illustri desunti dalla storia fiorentina. Notevole è anche la partitura architettonica: vi sono stati notati precisi riferimenti all'architettura romana. Infatti i personaggi sono rappresentati sullo sfondo di eleganti specchiature marmoree e si stagliano nettamente sulla parete, rilevati da un chiaroscuro contrastato. Le figure sono rappresentate come statue in posizione eroica. Ciascuna emerge con un punto di vista ribassato, ed è dotata di notevole monumentalità, data dal chiaroscuro e dagli effetti di scorcio, soprattutto nello zoccolo marmoreo alla base delle figure, dove a volte un piede si proietta verso l'esterno, "invadendo" lo spazio dello spettatore. Le figure mostrano i caratteri dei soggetti: il volto, la posa e le mani riescono a rappresentare il temperamento personale. MONUMENTO EQUESTRE A NICCOLO’ DA TOLENTINO (1456). Il condottiero Niccolò da Tolentino procede verso destra in sella al suo cavallo. Ai lati del sarcofago sono dipinti due figure di nudi maschili dotati di armi araldiche. Su di un sarcofago-piedistallo classicheggiante si trova il grandioso monumento equestre, isolato dallo sfondo tramite il contorno netto. Esso segue una prospettiva diversa da quella del sarcofago, che è impostato su una visione dal basso. L’effetto che ne deriva è che il cavallo stia come per cadere sull’osservatore, questo è accentuato anche dalle due zampe di sinistra sollevate contemporaneamente. La scelta prospettica, la posizione e la modellazione del cavallo infatti lo rendono enorme e incombente sull’osservatore. Il comandante indossa un cappello dalla tesa ampia e un abbigliamento molto decorato come i finimenti del cavallo. Niccolò da Tolentino esibisce un’espressione rigida e fiera e mostra di controllare pienamente il cavallo che procede irrequieto. Questo atteggiamento è simbolico e serve a rappresentare le qualità militari di un condottiero quale il protagonista del dipinto. Infatti attraverso la padronanza delle redini Niccolò da Tolentino dimostra di possedere una grande attitudine al comando e determinazione nella battaglia. Il personaggio è più caratterizzato nell’espressione di quello di Paolo Uccello ed è più nervoso e agitato. Anche le linee dei vestiti sono più mosse e i muscoli sono più tesi. Il chiaroscuro molto forte, grazie al rapido passaggio da zone di ombra profonda e luce intensa, sottolinea ulteriormente le masse muscolari e restituisce l’impressione di una superficie solida. Le figure del condottiero e del cavallo si evidenziano dallo sfondo grazie al contorno netto. Si caratterizza per un sottile gioco tra realtà e illusione, in quanto cavallo e cavaliere, anche se dipinti in monocromo come se fossero due statue, mantengono la febbrile e nervosa vitalità di un ritratto dal vero. |
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DOMENICO VENEZIANO (1400 - 1461)
Fonde le novità rinascimentali con il retaggio della formazione di stampo gotico internazionale. Ne risulta una sintesi di volumi di ascendenza masaccesca e di una straordinarietà sensibilità per la luce.
PALA DI SANTA LUCIA DE’ MAGNOLI (1445 – 1447). A sinistra ci sono S. Francesco, assorto nella lettura, e S. Giovanni Battista che indica il personaggio principale dell’affresco: la Madonna col Bambino. Queste due figure sono al centro su un’esedra poligonale di marmi colorati. A destra ci sono invece il primo vescovo santo fiorentino, Zanobi dei Girolami e S. Lucia. Quest’ultima è rappresentata con in mano la palma del martirio e la patena (piattino di metallo usato durante la messa) per offrire la sua vista. Lo spazio è definito da un complesso sistema prospettico a tre punti di fuga. Quest’opera dimostra la massiva attenzione per la descrizione dei fenomeni luministici. Un raggio di sole piove dall’alto, sottolineando le modanature architettoniche e velando con una leggera penombra i volti della Madonna e del Bambino. I giochi di luce indagano, con esiti realistici, il profilo di Santa Lucia e il viso scavato dei santi. Ci sono poi innumerevoli giochi di luci nelle pieghe dei mantelli (soprattutto in quello di S. Lucia). La volumetria dei personaggi e la preponderanza del disegno appartengono alla tradizione fiorentina, l’uso del colore rivela l’origine veneta di Domenico Veneziano. |
URBANISTICA RINASCIMENTALE: LA CITTA’ IDEALE
Se il Rinascimento vuole costruire l’uomo moderno, si pensa anche a costruire l’ambiente ideale dove vivere. La città ideale è uno dei grandi temi di elaborazione teorica dell’architettura rinascimentale, è il concetto di un insediamento urbano (raramente messo in pratica) la cui urbanistica riflette criteri di razionalità o un’impostazione scientifica. E’ collegata alla centralità dell’uomo, alla scoperta e riappropriazione dell’arte greco-romana, all’organizzazione prospettica dello spazio e alla teoria della misura e delle proporzioni.
Nella città ideale dovevano convergere aspirazioni ed esigenze diverse, sia funzionali che estetiche. Si basava su figure geometriche assolute, impianti radiali e a scacchiera. Lo studio dei testi classici stimolò la realizzazione di uno stato perfetto, retto da filosofi e sapienti, in grado di garantire l’equilibrio e l’armonia delle diverse sfere della vita comune. Si pensa l’architettura e l’urbanistica più consona a ospitare un governo saggio e giusto. Una politica equilibrata doveva essere unita a un’urbanistica precisa e rigorosa, a forme perfette e fondate sull’applicazione della prospettiva. Lo spazio deve essere pensato a misura d’uomo e in grado di garantire il vivere civile. I trattati di architettura del Rinascimento esprimono l’esigenza di coordinare gli interventi sulla città secondo principi che rispecchino un perfetto ordine sociale. In questa idea di città, ogni parte deve essere relazionata col tutto. I riordini urbani del ‘400 si basano sulla piazza, intesa come fulcro della vita sociale (luogo di incontro), politica (palazzo del governo), economica (sede di mercati cittadini), religiosa (sede della Cattedrale). Nella città ideale dovevano quindi idealmente convergere aspirazioni ed esigenze disparate, sia funzionali che estetiche, il cui equilibrio fosse espressione della nuova sensibilità affermatasi nella cultura e nella società del tempo. La città diventa il luogo privilegiato dove si esprimono le arti, ma anche lo spazio teorico in cui coordinare le diverse espressioni artistiche per creare un’unità civica comune e completa. Il primo a dare uno schema geometrico e rigoroso a una città (utopica e fantastica) è il Filarete che pensa a uno schema radiale che influenzò le teorizzazioni successive; poi Francesco di Giorgio Martini propone forme simmetriche e rigorose, combinando impianti radiali e a scacchiera. Dopo di lui anche Sebastiano Serlio, Andrea Palladio e Vincenzo Scamozzi affrontano il tema della città definita geometricamente e perfetta nella sua forma centrale. PIENZA. La città di Pienza è uno dei rari esempi, insieme a Urbino, in cui le riflessioni degli architetti sull’urbanistica e sull’assetto armonioso della città, trovano una realizzazione concreta. Il Papa Piccolonimi (Pio II) volle, nel 1459, la trasformazione rinascimentale del proprio borgo natale perché diventasse la sede ideale per sé e per la sua corte. La sistemazione urbanistica fu affidata a Bernardo Rossellino (allievo dell’Alberti). Il progetto prevedeva: - la creazione di un nuovo centro, costituito da una piazza su cui si affacciavano la cattedrale e il palazzo gentilizio; - la ristrutturazione delle case lungo la via principale; - la creazione di un gruppo di edifici nuovi lungo le mura. La piazza ha una forma trapezoidale che modifica otticamente lo spazio, facendo sembrare la piazza profonda verso il palazzo e più stretta verso la Cattedrale, al quale sembra perciò incombere con la sua facciata a capanna. Per i palazzi e la chiesa Rossellino sceglie prototipi albertiani. La Cattedrale ripropone all’esterno, se pure in modo più pacato, le forme del Tempio Malatestiano. Il Palazzo Piccolonimi deriva da Palazzo Rucellai, distinguendosi da questo sul retro. Qui si apre una loggia a tre ordini sovrapposti che si apre su un giardino pensile e sulla valle sottostante. Per la prima volta un edificio comunica con l’esterno, col paesaggio intorno, quindi si inizia a dare importanza al rapporto con la natura e ci si apre a essa. |
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