MANIERISMO
Nel 1506 Michelangelo e Leonardo lasciarono Firenze, il primo per dirigersi a Roma e il secondo a Milano. L’improvviso vuoto creatosi con la loro partenza e lo sconcerto suscitato dalle loro opere, indussero gli artisti fiorentini a un periodo di riflessione e di studio sulle innovazioni stilistiche da loro introdotte.
La radice della parola “manierismo” è “maniera”, un termine usato come sinonimo di “stile”. Secondo Vasari, la storia dell’arte era caratterizzata dal “progresso” ed era arrivata al suo culmine con Michelangelo (e la “maniera moderna”). Per Vasari, agli artisti delle generazioni successive, non restava altro che il vano tentativo di emulare i grandi del passato. Oltre a questo, Vasari introduce l’elemento della “licenza” cioè dell’estri, della bizzarria e del virtuosismo. L’arte del Manierismo è un’arte di una minoranza intellettuale, fatta di composizioni complesse, difficili, movimentate e instabili che usa un cromatismo fatto di colori mescolati e indefinibili. Quindi il Manierismo è una corrente artistica che partendo dalla “maniera” sviluppa una pittura che tende a esaltare la drammaticità e il dinamismo. Questo porta a risultati molto diversi tra loro: figure allungate e leggere, oppure contorte ed espressive, scene apocalittiche o immerse nel buio e persino composizioni bizzarre e mostruose. Lo spazio viene sconvolto e anche dissolto. Le figure al suo interno, sembrano spesso compresse e non sembrano avere punti di appoggio. Le scene sono sovraffollate e le figure sovrapposte tra loro. I manieristi miravano a rappresentare emozioni elevate, prediligendo forme eleganti e allungate o grottesche e deformi, e colori che tendevano più al contrasto che all’armonia. In questo periodo ogni artista non deve applicare delle regole fisse e valide per tutti (come quelle sulle proporzioni o sulla prospettiva), ma deve basarsi sul giudizio e il gusto personale. Il giudizio negativo della critica sul Manierismo (inteso come semplice imitazione di Michelangelo e Raffaello) ha pesato fino agli anni ’20 del Novecento. Nel Manierismo si possono individuare due fasi: 1° (1515 – 1525) caratterizzata dalla rottura anticlassica, in cui vengono messe in discussione le regole e viene presa la libertà di sperimentarle; 2° (dal 1530 in poi) quando il linguaggio visivo diventa un sofisticato gioco mondano (colto e raffinato) spesso privo di significato se non quello dell’evasione o della semplice celebrazione. |
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ANDREA DEL SARTO (1486 – 1531)
E’ il maggior rappresentante del classicismo fiorentino nei primi decessi del secolo.
In lui le innovazioni dei migliori artisti fiorentini precedenti vengono assemblate in un incastro stilistico sapientemente selezionato. L’influenza di Leonardo si vede nella scelta di ritmi pacati, di pose cadenzate, di un’armonica relazione tra figure e spazio e di un modellato morbido ottenuto con un uso sapiente dello sfumato. A questi elementi Andrea Del Sarto aggiunge la grazia raffaellesca e la monumentalità michelangiolesca (nelle pose), il tutto viene unito a un forte cangiantismo negli abiti. L’artista usa un sofisticato apparato estetico di cui fanno parte la brillantezza e l’energia dei colori, la mobilità degli effetti luministici. MADONNA DELLE ARPIE (1517). Nella pala è rappresentata la Vergine col Bambino in braccio, a cui da un lato le si affianca S. Giovanni Evangelista e dall’altro S. Francesco disposti a formare una struttura piramidale. Alle gambe della Madonna ci sono anche due angiolini che la sostengono su un basamento marmoreo anche se sembra quasi che la comprimano. I loro corpi sono scultorei, di una fisicità michelangiolesca; non solo sembrano scolpiti nella pietra, ma anche la loro posizione è propria delle statue. La Madonna appare vibrante, nella posa instabile, e collocata (come una statua) su un piedistallo monocromo dentro a una nicchia scavata nella parete di fondo, come se fosse una scultura dipinta. Le forme michelangiolesche si addolciscono mediante velature leonardesche, in una disposizione equilibratissima, ruotante e facente perno sulla Vergine. I volti del Bambino e dei due angioletti sono teneri e i corpi vibranti di energia vivissima. Un angioletto cinge la gamba della Vergine nel gesto che fanno i bambini piccoli che vogliono attirare l’attenzione della madre, l’altro invece le poggia la mano sulla caviglia come se la stesse sistemando sul suo basamento. Sugli spigoli del piedistallo su cui posa Maria sono scolpite figure mostruose che il Vasari chiamò arpie (che poi arpie non sono perché non hanno il corpo di uccello). Su questi mostri e sulla presenta (non meno strana) di un fumo che sale morbido su per l’architettura si fonda l’ipotesi che il tema della tavola sia connesso all’Apocalisse (descritta dallo stesso S. Giovanni). |
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ROSSO FIORENTINO (1494 – 1540)
Giovan Battista di Jacopo, detto il Rosso Fiorentino, come Pontormo fu allievo di Andrea Del Sarto e già nelle sue prime opere si nota una forte volontà di autonomia rispetto allo stile del tempo. Partendo dalle costruzioni equilibrate del suo maestro, ne forza le forme esprimendo un mondo inquieto e tormentato.
Le sue opere sono legate, per il colore, a Michelangelo e per la forma alla scultura fiorentina. DEPOSIZIONE DALLA CROCE (1521). La composizione è tutta giocata su ritmi spezzati dati dalle figure spigolose, dalla struttura geometrica della croce, dai gesti concitati e dai colori cangianti. Lo spazio è estremamente piatto, dentro a questo, tutto viene sbilanciato dai ritmi concitati delle figure che creano un forte senso di instabilità. La struttura di base è quasi simmetrica. I personaggi presentano un’anatomia sfaccettata (composta da piani geometrici rigidi) e appaiono allungate e spigolose e sono disposte in se acrobatiche. I corpi sembrano ridotti a forme svuotate di ogni vigore muscolare e sembrano ritagliate come silhouette bidimensionali. Anche il Cristo, che ha un corpo muscoloso, sembra non avere peso. Le figure, nella parte superiore dell’opera, presentano toni tragici esasperati. Le espressioni grottesche dei personaggi arrampicati sulle scale trasformano la tensione drammatica del primo piano in effetto caricaturale. Qui, la tragicità dello svenimento della Madonna culmina nell’esasperato piegarsi su se stesso di S. Giovanni e nella tesa e angolosa figura della Maddalena. La disposizione asimmetrica delle scale genera un moto violento, accentuato dall’incertezza degli appoggi degli uomini che calano il corpo del Cristo, mentre la luce incide con forza da destra, creando aspri scontri chiaroscurali. La composizione risulta illuminata da una luce irreale e da insolite e accese soluzioni cromatiche che, prive di effetti chiaroscurali, si stagliano contro la compatta “lastra” di cielo sullo sfondo. Le luci non formano sfumature sui corpi, ma sono tagliate per piani netti che evidenziano i colori irreali. Il tutto è irreale, come sospeso nel vuoto. Il pittore annulla quindi qualsiasi rapporto credibile con la realtà naturale a favore di un esasperato virtuosismo stilistico. L’autore ottiene il senso del dramma per la volumetria angolosa che sfaccetta le figure, per il movimento convulso di alcuni personaggi, per i colori intensi prevalentemente rosseggianti stagliati sulla distesa uniforme del cielo (che si schiarisce soltanto all’orizzonte). CRISTO MORTO SOSTENUTO DA QUATTRO ANGELI (1525 – 1526). Cristo morto, col costato ferito, è raffigurato nella sua nudità, seduto sul sepolcro-altare su un sudario blu intenso e retto da quattro angeli. Due di essi, quelli in primo piano, illuminati più fortemente, tengono in mano due grossi ceri. In terra si trovano gli strumenti della Passione (i chiodi e l'asta con la spugna imbevuta di aceto), mentre in testa Cristo ha ancora la corona di spine. Cristo sembra un Adone classico la cui fluidità del corpo risente degli Ignudi che Michelangelo dipinse nella Cappella Sistina. Presenta anche elementi innovativi come la posa serpentinata, del Cristo, precariamente scivolosa, e mai così possente e sensuale, che dimostra sia l'assimilazione di Michelangelo sia della statuaria antica, ma va oltre Questa posizione, unita alla soave e ambigua espressione del volto nella penombra, introducono una sofisticata valenza sensuale. |
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PONTORMO (1494 – 1557)
Jacopo Carrucci detto il Pontormo è il primo vero manierista toscano e forse il maggiore. Fu allievo, per poco tempo, di Leonardo e poi di Andrea Del Sarto.
Lo stile del Pontormo riflette il suo carattere introverso e scontroso, la sua angoscia per la vita e per la morte nelle sue opere. Infatti, nell’affrontare temi sacri, proietta nel fatto religioso il proprio tormento umano, sia trasformandone l’iconografia tradizionale, sia con le tensioni, gli urti e i contrasti stilistici. Nei suoi dipinti le figure sembrano inoltre fluttuare senza peso. DEPOSIZIONE (1526 – 1528). La superficie dipinta è occupata quasi per intero dai dolenti che trasportano il corpo di Cristo. Viene così a mancare lo spazio prospettico, lo spazio reale e sicuro. Gli uomini del Pontormo vivono al di fuori di questa certezza, insicuri e angosciati. Per la stessa ragione essi sono privi di stabilità. Il loro equilibrio è reso precario dall’appoggio sulle punte dei piedi, pur dovendo sostenere il peso del corpo morto, e dalla disposizione l’uno sull’altro senza che vediamo dove siano collocati. La composizione ha un ritmo discendente, come se le figure stessero franando verso il basso. L’azione, invece di essere al centro del dipinto, turbina attorno a un vuoto azzurro ghiaccio, rafforzato dal movimento e della gestualità agitata delle figure. La Vergine perde i sensi cadendo all’indietro e lasciando la mano del figlio morto. C’è un groviglio di corpi organizzato senza seguire una prospettiva evidente. I personaggi sono disposti secondo una tragica composizione teatrale e i volti sono atteggiati a un dolore compresso. I colori sono irreali, aciduli, con accordi volutamente dissonanti. Per rendere più evidente questa innaturalezza Pontormo riveste alcune figure di una maglia aderentissima che le fa apparire come fossero nude, ma il cui colore, invece che quello di un corpo umano, è viola-rosato, azzurro, verde. Inoltre i colori, con la loro chiarezza contribuiscono alla levità delle figure. La radiosa tavolozza di rosa zuccherini e rossi-arancio, verdi acidi, blu ghiaccio e pallidi rosa carne rafforza il senso di discordanza della composizione. Sebbene queste insolite combinazioni cromatiche fossero studiate per illuminare la cappella buia ed erano attinte dagli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina, qui accrescono la sensazione di disagio. Il senso di agitazione è accentuato dalle espressioni angosciate delle figure che guardano in ogni direzione. Gli occhi si spalancano, come fissando una realtà dolorosa e incredibile. Le figure si allungano, si torcono, si accostano, divergono, mentre il disegno ne indaga le forme. Gli occhi di Cristo sono chiusi nell’irrevocabilità della morte, il suo pallore realistico è rafforzato dalle inquietanti tinte bluastre su palpebre e labbra. Il suo corpo riprende la posizione della Pietà di San Pietro di Michelangelo, ma sembra non avere peso. Le pose e le torsioni atletiche dei due giovani che lo sorreggono confermano l’assenza di sforzo fisico; per esempio, benché il ragazzo al centro sorregga il corpo di Cristo, non poggia il peso sul piede. La drammaticità è ottenuta non con atteggiamenti disperati, ma con la preponderanza della piramide umana e con l’instabilità degli equilibri. Pontormo ci offre una versione sublimata del pathos immergendo la rappresentazione nella luce irreale di un’apparizione onirica e imprimendole le cadenze aeree e musicali di un trasognato balletto. Le luci modellano morbidamente i corpi. Le anatomie sono allungate, gli sguardi e i gesti puntano al coinvolgimento emozionale dello spettatore. Cristo ha un volume michelangiolesco, ma sembra non pesare. La leggerezza quindi contrasta con la monumentalità, che però non sembra avere alcuna consistenza fisica, ma si riduce a forma astratta. L’evento sacro si trasforma in una visione allucinata, ma anche un fatto presente, vissuto personalmente, un sogno fuori dallo spazio e dal tempo. Pontormo infatti evita qualsiasi riferimento a fattori contingenti di luogo, tempo o caratterizzazione, grazie all’uso di una gamma di tinte pastello prive di chiaroscuro, per esprimere (senza interferenze) la tragicità dell’evento elevandolo a immagine bella e perfetta. Gli uomini che sorreggono il corpo di Cristo si voltano a guardare verso di noi; si tratta di un trucco per creare un coinvolgimento diretto dell’osservatore. VISITAZIONE (1528 – 1529). La composizione è semplice e lineare come la figura romboidale che detta la disposizione delle quattro figure femminili che campeggiano su proscenio. Infatti lo sfondo è ridotto a pochi elementi architettonici e le quattro figure occupano lo spazio quasi per intero. Maria (in primo piano a sinistra) visita la cugina Elisabetta (a destra), dietro di loro ci sono due donne rivolte verso lo spettatore. L’impianto sembra basarsi sullo sdoppiamento delle immagini: in primo piano Maria ed Elisabetta (l’una giovane e l’altra anziana) si scambiano un abbraccio; in secondo piano le due “testimoni”, immobili e assenti, che interrogano con lo sguardo il vuoto dinanzi a loro. Ogni gesto sembra essersi enigmaticamente duplicato. La Vergine trova un suo “doppio” cromaticamente rovesciato (nei colori del velo e della veste), mentre Elisabetta pare essersi realmente sdoppiata in quel suo alter ego frontale che non la degna nemmeno di uno sguardo. Le bocche chiuse e gli sguardi fissi annullano ogni espressività. Il disegno è mosso e continuo. Il colore ha gamme chiare e stridenti. Pontormo vuole esprimere un senso di astrazione, di totale inconsistenza fisica (i corpi sembrano lievitare nelle vesti rigonfie). C’è una forte antitesi tra la monumentalità delle figure e la loro incorporea leggerezza. |
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GIULIO ROMANO (1499 – 1546)
Fu l’allievo prediletto di Raffaello e lavorò a Mantova a partire dal 1524 come architetto e pittore.
E’ un artista che tende alla spettacolarizzazione più che alla verosimiglianza con naturale. PALAZZO DEL TE’ (Mantova, 1525 – 1534). Lo concepisce come un’antica villa romana ad un piano e con una pianta quadrata che si sviluppa attorno a un ampio cortile quadrato. In questa costruzione quindi si mescolano diverse funzioni: da quella abitativa a quella di svago, di ospitalità, di intrattenimento e di rappresentanza, adeguata alle esigenze della corte della famiglia dei Gonzaga. Le facciate presentano motivi architettonici classici combinati in modo vario, superando le regole tradizionali: i diversi elementi vengono giustapposti in modo estroso. La decorazione interna è pensata per stupire, meravigliare e deliziare lo spettatore che si trova di fronte a motivi decorativi sempre diversi. Nella SALA DEI GIGANTI le pareti, animate da enormi figure grottescamente deformate e dal crollo di incombenti architetture, producono sul visitatore la sensazione di soccombere sotto la rovina, incalzata dall’artificio del gorgo musivo del pavimento. Quest’ultimo era formato da sassi che amplificavano l’effetto naturale e creavano l’illusione di trovarsi dentro a una grotta. Inoltre la simulazione del finto loggiato circolare, che sfonda il soffitto, sottopone per contrasto l’ambiente a una ascensione verticale senza precedenti. La chiave interpretativa della rappresentazione diviene il paradosso, che si sostituisce alla logica e alla razionalità delle figurazioni rinascimentali e ne costituisce una critica serrata in nome di nuove e più ampie potenzialità espressive. L’insieme è dominato da figure che incombono verso chi osserva, creando un effetto di sorpresa, ma anche di angoscia. I temi manieristici dell’artificio, dell’illusionismo e della raffinatezza edonistica raggiungono qui l’apice creativo. L’artista fonde l’affresco con l’architettura, mimetizzando le aperture e realizzando un’impressionante visione di finzione che atterrisce lo spettatore. |
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PARMIGIANINO (1503 – 1540)
Francesco Mazzola, detto il Parmigianino, nel 1524 da Parma si sposta a Roma dove conosce l’opera di Michelangelo, ma dove rimane impressionato soprattutto dallo stile di Raffaello. Dal Rosso Fiorentino invece riprende il forte linearismo.
Raffinata eleganza e sottile introversione si fondono nelle sue opere in un nuovo ideale di bellezza che cristallizza le immagini in una rarefatta e preziosa incorruttibilità formale. Le sue figure si allungano e le linee curve si avvolgono in spirali dai ritmi continui. MADONNA COL BAMBINO E ANGELI o MADONNA DAL COLLO LUNGO (1534 – 1539). La Vergine si evidenzia per l’innaturale anatomia allungata e longilinea e soprattutto per il collo lungo (uno smacco per i canoni proporzionali del Rinascimento) che qui consiste in una scelta stilistica preziosa per ottenere curve sinuose nelle anatomie e nei panneggi delle figure. Il pittore riformula l’immagine umana secondo i canoni di una bellezza tanto raffinata e artificiale da configurare un’esagerazione estetica. La piccola testa ovale della Madonna, il collo lungo e sottile, le mani affusolate e il sinuoso allungamento del corpo si uniscono per formare una lunga curva a S, detta “figura serpentinata”. La figura sinuosa e allungata della Vergine suscita, nello spettatore, l’incertezza di riuscire a riconoscerne la posizione. Infatti non si capisce se sia in piedi, seduta o appoggiata a un’invisibile sostegno; creando un’immagine instabile. Inoltre l’ambiguo effetto di instabilità della scena (che non è facile capire se si svolga al chiuso o all’aperto) è sottolineato dalla non razionalizzabile rappresentazione dello spazio, in base alla quale le proporzioni della figura in primo piano sono inconciliabili con quelle sullo sfondo. Qui si staglia l’improbabile resto di un tempio dalla fila di altissime colonne senza capitello. Questa colonna gigantesca sembra appartenere a un colonnato, ma non sostiene nulla e le sue dimensioni sproporzionate sono enfatizzate dalla figura in miniatura vicina, forse un profeta. Gli sguardi convergono verso il Cristo che ha una posizione che prelude la morte (sottolineata dagli occhi chiusi). La composizione è squilibrata: a sinistra ci sono molte figure che non hanno spazio mentre a destra lo spazio è libero e vuoto, con una prospettiva alterata. |
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SCULTURA
In scultura tutta la prima metà del Cinquecento è dominata dal mito di Michelangelo come creatore del prototipo del nuovo ideale di gigantesca eroicità e come ispiratore del nuovo modulo serpentinato di figura umana.
A Firenze Piazza della Signoria fu scelta come sede per il confronto tra gli eredi di Michelangelo.
In scultura tutta la prima metà del Cinquecento è dominata dal mito di Michelangelo come creatore del prototipo del nuovo ideale di gigantesca eroicità e come ispiratore del nuovo modulo serpentinato di figura umana.
A Firenze Piazza della Signoria fu scelta come sede per il confronto tra gli eredi di Michelangelo.
BENVENUTO CELLINI (1500 – 1571)
E’ una delle figure più tipiche del tardo Rinascimento europeo, della crisi anticlassica, della ricerca del nuovo, del raffinato, del tecnicismo virtuosistico.
Spirito ribelle e irrequieto, ha una vita errabonda e avventurosa. Soggiorna a lungo a Roma dove ha modo di conoscere le opere antiche oltre a quelle di Michelangelo e di Raffaello. Ha una formazione e una grande attività da orafo, per la quale era celebre, che ci è però quasi del tutto ignota; rimane l’attenzione meticolosa ai dettagli delle figure. SALIERA DI FRANCESCO I (1543). L’opera di piccolo formato fu realizzata in oro e smalto. Le figure poggiano su una base ellittica in ebano. Vediamo una figura femminile e una maschile che siedono agli opposti su una base ovale. Sono entrambe nude e intrecciano le gambe al centro in prossimità di un piccolo bacile. Alcuni strumenti impiegati per il lavoro della terra e nel mare sono sparsi sulla base. E’ un capolavoro di raffinatezza e di intelligenza nel portare al massimo interesse estetico, tecnico e tematico un oggetto funzionale. Le figure sono realizzate con grande attenzione e anche i più piccoli particolari sono curati sebbene sia alto solo 26 cm. Le due figure possono essere identificate come il dio del Mare (Nettuno) e della Terra (Cerere), incrociano le gambe e dalla loro unione viene prodotto il sale. I due personaggi si protendono in pose elegantemente in naturalistiche, con una preziosa combinazione di materiali diversi. PERSEO (1545 – 1554). La grande statua bronzea presenta Perseo che esibisce fieramente la testa mozzata di Medusa. Il giovane eroe classico è raffigurato in piedi e nudo. La mano destra stringe l’impugnatura di una spada con la punta a sciabola, con la sinistra invece solleva la testa appena recisa di Medusa. Il volto di Medusa ha connotati classici e gli occhi sono chiusi. I piedi dell’eroe poggiano direttamente sul corpo decapitato della Gorgone. Dal suo collo infine fuoriescono violenti getti di sangue. In cadavere poggia a sua volta su di un tessuto che copre parzialmente il piano. Assume quindi una postura aggraziata e raffinata. che non mostra la fatica dell’azione. Esibisce invece un’estrema eleganza anche in un gesto così brutale e violento. La scultura è concepita per una visione a 360°, senza un punto di vista privilegiato di osservazione. Cellini si sforza di rileggere tutta la tradizione fiorentina, da Michelangelo a Donatello, allo stiacciato quattrocentesco. L’esito fu indubbiamente clamoroso, anche per l’artigiana finitezza di ogni dettaglio che l’avvicina maggiormente al gusto dell’orafo (nei minuziosi e sapienti movimenti delle strutture anatomiche) che al senso di sintesi richiesto da una scultura collocata all’aperto e visibile a distanza. |
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BACCIO BANDINELLI (1493 - 1560)
Era uno dei più accaniti ammiratori di Michelangelo, attento studioso della sua opera nell'ambizione di arrivare a superarlo. Invece lo imitò spesso nei soggetti e nel gigantismo, credendo che la grandezza del Buonarroti consistesse nelle grandi misure delle statue, facendo sculture enormi, ma senza forza né anima, né perfezione anatomica.
ERCOLE E CACO (1534). Rientra nel tema della vittoria sul nemico (come il David posizionato accanto). L'opera è posta su un basamento con dei busti di fauno scolpiti a bassorilievo e reca, in latino, la firma dell'autore. Il tema allegorico è quello della forza e dell'ingegno di Ercole che sconfiggono la malvagità di Caco, episodio narrato nella saga delle Dodici fatiche di Ercole. Si ispira fortemente a Michelangelo e alla scultura ellenistica, ma arriva a un esempio forzato di gigantismo (tutto esteriore), privo di quella forza interna che animava le figure di Michelangelo. Qui tutto si riduce a delle anatomie anche troppo studiate e accademiche. Tenta di emulare la terribilità, senza però avere contenuti profondi da esprimere e quindi arriva a forme retoriche e sterilmente accademiche. |
GIAMBOLOGNA (1529 – 1608)
Jean Boulogne, più noto col nome italianizzato di Giambologna, dopo aver studiato ad Anversa ed avere contatti con l’ambiente di Fontainbleau, compie un viaggio di istruzione in Italia, recandosi prima a Roma e poi a Firenze, dove resterà fino alla morte.
L’artista applica con piena libertà e maestria i principi del Cellini e costruisce un’immagine aperta nello spazio, applicando alle opere le sue abilità virtuosistiche. Ciò non significa che sia un tecnicismo scolastico fine a se stesso, ma che, nella ricerca esasperata della stranezza nelle forme e negli equilibri, è necessario spingere la tecnica ai limiti estremi per piegare la materia ad ogni esigenza fin nei più minuti particolari. RATTO DELLE SABINE (1581 – 1583). E’ un gruppo scultoreo in marmo alto più di 4 metri a tre figure, una delle composizioni più difficile del Cinquecento. Originariamente aveva come tema le età dell’uomo: un giovane che rapisce una donna (fonte della vita) calpestando un vecchio (nel continuo sostituirsi di una generazione all’altra). Giambologna riesce a rendere un effetto di straordinario dinamismo, insistendo sulla torsione dei corpi e sull’avvitamento compositivo del gruppo a tre figure. L’artista lega i movimenti e le vedute multiple in un’articolazione spaziale e formale che dissolve l’effetto gigantesco e moltiplica i punti di vista. La massa è trapassata da vuoti profondi. Le forme sono modellate in uno straordinario gioco di incastri che lascia libero campo ai vuoti e alle forme aperte (anticipando il Barocco). La disposizione “serpentinata” deriva da Michelangelo, ma qui piuttosto che contorsione drammatica, è un avvitamento dal basso verso l’alto, in un gioco alterno di linee che conducono alla mano della donna e che generano un moto pluridirezionale intenso. La composizione è quindi instabile e teatrale, prebarocca e anticlassica, pur negli evidenti riferimenti alla statuaria ellenistica. Quest’opera sembra nascere come pura esibizione di abilità virtuosistica nel trattamento del nudo maschile e femminile, in una complessa composizione serpenti nata. E’ quindi un risultato tipico dell’ambiente accademico fiorentino. |
BARTOLOMEO AMMANNATI (1511 - 1592)
FONTANA DEL NETTUNO (1563 – 1577). Al centro dell’enorme vasca c’è la figura monumentale di Nettuno sopra a un carro sorretto da quattro cavalli. Ai lati ci sono una serie di statue bronzee di divinità marine dalle anatomie elegantemente allungate.
L’epiteto popolare di “Biancone” sottolinea bene il disprezzo dei fiorentini per la greve sterilità del gigantismo della figura principale in marmo. L’energia si riassorbe in forme eleganti e artificiose, senza il moto e il pathos tipici di Michelangelo. Comunque l collocazione vicino a uno spigolo di Palazzo Vecchio e l’essere rialzato su un basamento, gli conferiscono un movimento che ne riscatta parzialmente la pesantezza. La bellezza dei suoi insegnamenti si avverte molto meglio nelle sculture in bronzo che ornano la vasca della fontana. La vasca è espansa e mossa ed è il punto di incontro e di raccordo tra il piano orizzontale e la linea verticale. Le statue di satiri e naiadi la ornano, ma se ne staccano per il colore della materia e perché si articolano liberamente in studiate e contorte pose, eleganti nell’allungarsi delle forme e nei riflessi della luce. INGRANDIMENTO DI PALAZZO PITTI. I duchi Cosimo ed Eleonora, affidano all’Ammannati l’incarico di ingrandire Palazzo Pitti, trasformandolo in reggia. L’architetto, riprendendo la vecchia costruzione brunelleschiana incompiuta, chiusegli arconi laterali, inserendovi due grandiose finestre, ingrandì il palazzo con l’aggiunta delle due ali retrostanti e fabbricò il cortile. |
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GIORGIO VASARI (1511 – 1574)
Ebbe un ruolo preminente nella Firenze dell’epoca, fu consulente del Granduca Cosimo I, quindi organizzò, controllò e coordinò la maggioranza delle opere pubbliche fiorentine. Pittore mediocre, ma fecondissimo, architetto capace di intervenire con sicurezza a scala urbana, uomo di cultura e collezionista. Vasari, grazie al suo talento di grande imprenditore, esercitò un autentico monopolio sull’attività artistica fiorentina e fu a capo di tutte le maggiori imprese del momento fino alla sua morte.
E’ considerato il primo storico dell’arte e scrive “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti da Cimabue ai giorni nostri” nel 1550. Questo libro divide la storia dell’arte in tre parti, riferite alle tre età (XIV, XV, XVI secoli) in cui Vasari vede un continuo progresso delle arti. Ogni età, per lui, corrisponde a una “maniera”, cioè a uno stile. La terza maniera (chiamata “moderna”) è quella della perfezione a cui non può che seguire il declino. In questo libro l’affermazione del primato fiorentino nella storia dell’arte è espressa con entusiasmo e vivacità. PALAZZO VECCHIO (1556). Vasari nel 1556 avvia la completa ristrutturazione interna di Palazzo Vecchio, coordinando il lavoro di una vasta équipe di artisti decoratori. Con fine sensibilità storica, Vasari lascia immutato l’aspetto esterno di Palazzo Vecchio e sviluppa invece un complesso intervento urbano diretto a creare uno scenografico collegamento tra la Piazza della Signoria e la residenza ducale di Palazzo Pitti. Coordina l’apparato decorativo del “Salone dei Cinquecento”, il grande ambiente che avrebbe dovuto ospitare gli affreschi di Michelangelo e Leonardo con le due Battaglie di Cascina e Anghiari (non completate e per questo occultate dall’apparato vasariano) e già sede del Gran consiglio repubblicano di Firenze. L’immensa sala, tappezzata di tele, viene dedicata alla rappresentazione di allegorie e alla celebrazione dei trionfi medicei ed è contornata (lungo il perimetro) da una serie di sculture che alludono alla vittoria di Cosimo sui nemici. UFFIZI (1560). L’edificio fu voluto da Cosimo come sede degli uffici amministrativi, giudiziari e degli archivi di Firenze. Il palazzo è composto da due corpi di fabbrica paralleli e da uno, più piccolo, a essi perpendicolare che li unisce; il tutto ha degli eleganti porticati architravati d’ordine tuscanico al piano terra. Questi elementi collegano Piazza della Signoria all’Arno e creano una piazza stretta e lunga che si conclude con una grande e luminosa arcata a serliana, sormontata da una loggia a doppia vista, sul fiume e sulle colline da una lato e dall’altro sulla scenografica prospettiva con lo sfondo di Piazza della Signoria. Il complesso si ispira alla sala di lettura della Biblioteca Laurenziana di Michelangelo. Invece della drammaticità michelangiolesca, qui le strutture architettoniche aggettanti o rientranti sono pacate e il concatenamento si allenta, diluendosi e alleggerendosi nella ripetizione, in basso, del porticato e, in alto, di una loggia (oggi chiusa da vetrate) e con le aperture ai lati estremi, una verso la piazza della Signoria e l’altra verso l’Arno. L’architettura è modulare, costituita da blocchi divisi tra loro da paraste, ogni tre aperture. L’edificio è in pietra grigia intonacata nelle parti non in aggetto. Vasari realizza un immenso corridoio, caratterizzato da un portico e da aperture classiche, che culmina con una loggia a “serliana” (motivo architettonico a tre aperture, di cui due laterali sono trabeate e quella centrale è sormontata da un arco a tutto sesto) che immette sul lungarno. L’architetto crea così due aperture scenografiche: una verso il fiume e l’altra verso Piazza della Signoria e Palazzo Vecchio, simboli del potere a Firenze. CORRIDOIO VASARIANO (1565). Vasari completa il suo progetto organizzando anche un percorso, nascosto sopra le mura degli edifici che sovrasta, che parte da Palazzo Vecchio, supera via della Ninna, entra nel corridoio degli Uffizi e, continuando sopra al Ponte Vecchio, arriva a Palazzo Pitti. E’ in questo momento che il duca Cosimo I dà l’ordine di sgomberare le botteghe dei macellai, che si trovavano sul Ponte Vecchio, facendovi trasferire gli orafi di Firenze. Il percorso univa la sede del potere pubblico alla residenza del granduca. Viene costruito per evitare il passaggio dei membri della famiglia Medici attraverso le strade e i pericoli di eventuali attentati. Aveva quindi uno scopo difensivo (di salvezza per il signore anche in caso di sommosse popolari) e simbolico (di collegamento dei diversi centri del potere pubblico). STUDIOLO DI FRANCESCO I (1570). Vasari progetta questa stanza rettangolare, completamente priva di finestre, coperta da un’ampia volta a botte. La realizzazione del progetto fu completata solo dopo la morte del Vasari. Doveva essere una sorta di “camera delle meraviglie” cioè, secondo l’uso dell’epoca, una stanza che contenesse quanto di più curioso si trovasse in circolazione (in questo caso dovevano essere i gioielli e le pietre preziose possedute dal duca). Il programma iconografico è molto articolato: in 34 dipinti (di pittori manieristi, tra cui Vasari) sono illustrate le attività umane, affiancate da temi mitologici e alchemici. Ogni lato della stanza è dedicato a uno dei quattro elementi e si articola in una serie di armadi i cui sportelli sono dipinti con soggetti inerenti all’elemento a cui è dedicata la parete. Allo stesso elemento sono collegati i reperti conservati dentro gli armadi stessi. Nel soffitto, tra cornici dipinte, è narrata la leggenda di Prometeo (l’eroe che si era impossessato del fuoco, rubandolo agli dei) che allude alla conoscenza umana che non deve avere limiti, nemmeno di natura religiosa. La stanza ambisce a sintetizzare la complessità dell’universo e a fare un confronto tra i prodotti della natura e quelli dell’uomo. Venne usato per poco tempo, perché nel frattempo i Medici avevano lasciato l’abitazione di palazzo Vecchio per trasferirsi a Palazzo Pitti. Abbandonato, decadde rapidamente e gli ornamenti andarono dispersi. Soltanto nel Novecento l’ambiente venne pazientemente ricostruito con i pezzi originali e restituito al suo splendore. AFFRESCHI (Cupola di S. Maria del Fiore, Firenze, 1572 – 1579). Il soggetto è il Giudizio Universale, ma è affrontato in modo completamente diverso da come aveva fatto Michelangelo. Non è più inteso come momento di dubbio e conquista faticosa della salvezza, ma viene imbrigliato in un impianto gerarchico e rigoroso. Lo spazio sulle otto vele è scandito da fasce concentriche e la raffigurazione si conclude (sotto la lanterna) con una porzione di architettura in prospettiva che finge otto aperture poggianti su una cornice retta da angeli in volo. Questa prospettiva architettonica “schiaccia” la cupola, con l’effetto di ridurne illusionisticamente l’altezza, non rendendo quindi giustizia all’architettura brunelleschiana. Vasari sembra non calcolare la distanza da cui verrà visto e ha moltissimi particolari come se si trattasse di un dipinto di piccolo formato da vedere da vicino. I colori sono tanti, cangianti e usati con maestria. |
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PALLADIO (1508 – 1580)
Si forma studiando le architetture classiche a Roma, ma anche le opere di Bramante, Raffaello e Michelangelo. Tutto quello che apprende dai monumenti antichi appare nelle sue opere con proporzioni eleganti e soluzioni innovative.
Scrive un trattato “I quattro libri dell’architettura” in cui sottolinea come la forma di un edificio debba derivare dalla sua funzione e collocazione e mettendo in risalto l’importanza del rapporto proporzionale tra le varie parti dell’opera. Palladio ritorna a una classicità originaria in cui gli elementi ornamentali sono subordinati alle proprietà plastiche dell’insieme. La sua è quindi un’architettura razionale, fatta di forme pure. BASILICA DI VICENZA (1549). A dispetto del nome non è una chiesa, ma il Palazzo della Ragione, cioè un edificio per le assemblee cittadine, quindi riprende il nome secondo l’uso nell’antica Roma. Palladio restaura l’edificio dando una veste nuova all’esterno: costruisce un portico in marmo su due livelli, ognuno dei quali è costituito da una serie di aperture “a serliana” (cioè una struttura composta da un arco affiancato da due aperture laterali ad architrave) e oculi circolari. Per il piano terra sceglie colonne di ordine tuscanico, per il piano superiore, colonne ioniche. Ottiene così un involucro maestoso, ma raffinato con un armonioso ritmo di pieni e vuoti di chiara ispirazione classica. Più in alto vediamo una balaustra alternata a statue. Da tutto questo deriva un andamento ritmico e solenne. Il piano superiore è composto da un unico salone, il Salone del Consiglio del Quattrocento, composto da una copertura a forma di nave rovesciata. Le VILLE PALLADIANE testimoniano la volontà di riunire, ai piaceri della campagna (struttura abitativa), la funzionalità (fabbricati a uso agricolo, stalle, scuderie, magazzini) creando dei nuclei dove il luogo di svago convive con quello dell’unità produttiva. Altre volte l’edificio è pensato come semplice luogo di svago. Palladio ne progetta circa trenta. Il disegno in pianta dell’edificio è spesso aperto, misurato e articolato secondo le caratteristiche del terreno. VILLA “LA ROTONDA” (1550 – 1551). La struttura è pensata come luogo di piacere e di intrattenimento colto e ricalca le descrizioni letterarie delle ville romane. Ha una pianta quadrata che si sviluppa attorno a un salone circolare coperto da una cupola emisferica (da cui prende il suo soprannome). La pianta centrale era uno schema usato, fino a quel momento, solo per gli edifici sacri. Intorno a questa sala centrale si snodano tutte le stanza della villa che insieme compongono un quadrato. Non esiste una facciata principale. Nessuno dei quattro ingressi è il principale. Ogni entrata è identica ed è costituita da un pronao classico con colonne ioniche che si eleva su una gradinata e timpano triangolare dentellato. I numerosi loggiati esterni danno la possibilità di godere della natura circostante in tutte le direzioni e di inserire gradualmente l’edificio nel paesaggio. Le colonne ioniche, snelle e slanciate, e l’alta gradinata che precede ogni ingresso, danno alla Rotonda un senso di armonia e di eleganza. Più che un’abitazione, la villa sembra un tempio innalzato in mezzo al verde. Questa impressione è dovuta all’ispirazione che Palladio prende dal Pantheon con il quale la Rotonda presenta molte affinità: l’aula centrale e la cupola, il portico davanti a ogni ingresso richiama il pronao dell’edificio romano. Palladio usa materiali pratici e modesti (mattoni, intonaco, stucco), ma rende ugualmente l’edificio solenne usando elementi classici rimodellati e inseriti in un ambiente civile e non religioso. La cura della forma e delle proporzioni non va a scapito degli aspetti pratici. Per esempio per far ricevere a tutti gli ambienti luce e calore in giusta quantità, palladio ruota la villa di 45° rispetto ai punti cardinali, così da non creare nessuna facciata svantaggiata rispetto alle altre. VILLA BARBARO A MASER (1555 – 1559). E’ strettamente legata alla vocazione agricola. Prevede uno sviluppo orizzontale, a un piano unico, con le parti laterali destinate a funzioni agricole e il corpo centrale adibito a residenza dei proprietari. Evidenzia i riferimenti all’architettura classica nella facciata principale, che è caratterizzata da un ampio timpano sorretto da quattro gigantesche colonne. Il corpo centrale, leggermente sollevato dal terreno, si sviluppa su due piani. La villa stimola l’armoniosa valorizzazione del carattere del paesaggio. Le decorazioni pittoriche degli interni sono del Veronese e sono perfettamente integrate con l’architettura. SAN GIORGIO MAGGIORE (Venezia, 1556 – 1560). La pianta è rettangolare a tre navate. Il transetto non si stacca dal corpo longitudinale e la navata centrale continua nel presbiterio e in un profondissimo coro. Sembra di essere in uno spazio centrico grazie alle campate poco profonde, alle navate laterali alte e al coro semi-coperto alla vista. L’interno sembra quindi quello di una basilica romana per le grandi volte a botte e per le finestre a lunetta. La facciata è composta da un ordine enorme di colonne con una trabeazione e un timpano classico. Palladio rivisita l’antico non usando però il marmo, ma scegliendo i mattoni e il legno (intonacati e stuccati). TEATRO OLIMPICO (dal 1580 in poi). E’ concepito come un teatro romano (basandosi sul modello fissato da Vitruvio e sulle testimonianze archeologiche approfonditamente studiate dall’architetto) con l’articolazione di una cavea per il pubblico sormontata da un portico colonnato e una maestosa scena fissa, composta da colonne, nicchie con statue, cornici e bassorilievi. Rispetto ai teatri romani Palladio crea però una gradinata di forma semiellittica (anziché semicircolare), per allargare al massimo lo spazio scenico. Inoltre Palladio copre l’edificio (a differenza dei teatri romani che erano all’aperto) su cui si preoccupa di inserire il motivo illusionistico di un finto cielo dipinto proprio per sottolineare la derivazione dai modelli aperti dell’antichità classica. Ma la vera novità sta dietro la scenografia: dalle tre porte si aprono cinque strade che sembrano possedere una grande profondità. In realtà è solo un’illusione ottica realizzata usando una prospettiva accelerata. Le pareti di ogni strada convergono, il pavimento è in salita e le sagome degli edifici in discesa. |
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VERONESE (1528 – 1588)
E’ un pittore teatrale e scenografico, interessato alle grandi scene di pittura religiosa o storica, in cui l’arditezza compositiva si combina con una notevole capacità di invenzione.
Il Veronese esplora le possibilità del disegno, dimostrando spesso un gusto manierista per la fantasia delle invenzioni e la difficoltà delle realizzazioni. Per dare luce ai propri dipinti non usa il bianco, ma giustappone vari colori complementari, accostandoli in modo che si esaltino a vicenda ed evitando il chiaroscuro e la scala tonale che tenderebbero a incupirli. Le ombre non sono nere (come non lo sono nella realtà), ma riprendono per trasparenza il colore della superficie su cui proiettano e per riflessione quello del corpo che le genera. AFFRESCHI (Villa Barbaro a Maser, 1560). Gli affreschi si adattano bene alla concezione classicheggiante dello spazio di Palladio. Sono distribuiti in nove ambienti e vi si sviluppano soggetti allegorici che dimostrano l’armonia generale degli elementi. Negli affreschi unisce le rappresentazioni dei personaggi della famiglia alle divinità dell’Olimpo. I soffitti sono popolati da dei e creature allegoriche, le pareti hanno invece un linguaggio più intimo e quotidiano. Veronese immagine ampi paesaggi che si aprono dietro finti balconi, servitori che si affacciano da porte dipinte, figure allegoriche dietro nicchie dipinte. Il tutto è giocato con un’ariosità compositiva e cromatica che amplifica l’ispirazione classica dell’ambiente. Con quest’opera, si riallaccia idealmente alla pittura illusionistica di epoca romana, realizzando sfondamenti prospettici che simulano aperture reali. NOZZE DI CANA (1562 -1563). Questo dipinto immenso rappresenta un episodio tratto dal Vangelo di Giovanni in cui si narra della miracolosa trasformazione, da parte di Gesù, dell’acqua in vino. In un paesaggio architettonico aperto e arioso rappresentato in prospettiva, si svolge un grande banchetto di nozze, al centro vediamo Gesù e Maria. I due personaggi si riconoscono per la luminosità dei volti e perché sono tra i pochi che guardano verso di noi. E’ una scena grandiosa che somiglia a una messinscena teatrale. Infatti, su una tavola disposta a ferro di cavallo, ci sono decine di ospiti impegnati nelle attività più diverse (parlare, camminare, servire ai tavoli, suonare). Tutti indossano abiti dai colori sgargianti con dettagli fastosi e con i loro diversi atteggiamenti creano uno straordinario effetto dinamico. Al di sopra del piano del convivio, vediamo una balaustra in marmo che separa un altro gruppo di personaggi: servi e curiosi variamente affaccendati. Veronese esprime qui la sua predilezione per le grandi architetture di derivazione classica. Nonostante il soggetto religiosi, il dipinto ricorda una raffigurazione laica dei sontuosi banchetti veneziani che si dovevano svolgere al tempo del pittore. CENA A CASA DI SIMONE IL FARISEO (1570). Qui l’architettura classica, rappresentata magistralmente e con un’innovativa illusione di profondità, i colori lucenti delle vesti sontuose e l’esuberanza della folla, distraggono l’osservatore dal messaggio religioso. Sebbene il dipinto collochi in primo piano Maria Maddalena che lava i piedi a Cristo, l’immagine non è un elemento dominante dell’opera che trabocca invece di vita e di attività umane al punto che il Santo Uffizio dell’Inquisizione accusò l’autore di empietà. Veronese accostò il rosa acceso al giallo e l’arancione al verde scuro, contrasti molto amati dai manieristi, ma rari tra i pittori veneziani. |
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TINTORETTO (1518 – 1594)
Tintoretto concilia la lezione sul colore di Tiziano, quella sul disegno di Michelangelo e quella manierista ed elabora un’arte dal forte impatto visivo, con scorci arditi, forti contrasti luminosi e una grande libertà nel tocco pittorico.
E’ una pittura emozionale e intensa. Tintoretto stendeva i fondi scuri e poi faceva emergere le figure chiare. La luce evidenzia i personaggi staccandoli da qualsiasi contesto reale e proiettandoli in uno spazio di fantasia (che prefigura la sensibilità barocca). Dipingeva con grande energia e velocità su grandi formati, per esprimere al meglio il suo talento scenografico e teatrale. MIRACOLO DI SAN MARCO (1548). San Marco salva uno schiavo destinato al martirio. La scena è organizzata puntando sul massimo coinvolgimento emotivo dello spettatore: - la prospettiva è fortemente ribassata, creando una continuità con lo spazio reale; - lo scorcio ardito di S. Marco e dei personaggi disposti a semicerchio contribuiscono a creare un vuoto visivo al centro e a focalizzare l’attenzione sullo schiavo e sugli strumenti di tortura. Le gamme accese dei colori derivano da Tiziano, mentre il plasticismo da Michelangelo. La luce, distribuita per fasci incrociati, e il fondale piatto amplificano l’effetto teatrale della scena. E’ innovativo l’impetuoso dinamismo delle figure, movimentate, plastiche e monumentali, spinte in un vortice rotatorio. IL RITROVAMENTO DEL CORPO DI SAN MARCO (1562 – 1566). La scena è ambientata dentro la navata di una chiesa, resa in forte scorcio, con un’illuminazione artificiale che crea così un interno cupo e inquietante. I protagonisti sono due mercanti di Venezia che cercano tra le tombe, sopraelevate, il corpo del Santo. Viene raffigurato il momento in cui tra i corpi trafugati si riconosce quello di San Marco. Sulla sinistra domina la scena la figura del santo, apparso per confermare che il corpo ritrovato, disteso ai suoi piedi, è il suo. Infatti con un gesto della mano, ferma la profanazione delle tombe. Gli altri personaggi manifestano teatralmente la loro meraviglia e sorpresa. Sulla destra si contrappone a San marco la figura di un indemoniato che, contorcendosi, si proietta in diagonale nello spazio esterno coinvolgendo emotivamente lo spettatore nell’evento sovrannaturale. Tutto è rappresentato in una sorta di prospettiva rialzata dove il punto focale è il corpo di S. Marco che, grazie allo scorcio, sembra seguire lo spettatore. La penombra della scena è rischiarata solo dai punti di luce che cadono in primo piano sull’indemoniato (a destra) e sul corpo del santo (a sinistra) e “disegnano”, con dei leggeri filamenti di luce dorata, i profili degli archi in prospettiva. La luce proveniente dall’esterno evidenzia la fuga prospettica della loggia mentre bagliori improvvisi squarciano l’oscurità. I forti contrasti tra luce e ombra conferiscono un accento drammatico e irreale alla composizione. CROCIFISSIONE (1565). E’ lunga più di 12 metri e alta 5 metri. L’ampia scena è caratterizzata da improvvisi tagli luminosi nelle tenebre e da un’assortita varietà di personaggi intenti in diverse operazioni. Al centro c’è Cristo con un’anatomia possente e con il volto quasi completamente in ombra. L’effetto è estremamente drammatico e la disposizione circolare delle figure intorno alla croce diventa una sorta di abbraccio visivo per lo spettatore che si sente emotivamente coinvolto nel tragico evento. L’asse di simmetria è la croce di Cristo, le sue braccia toccano quasi il bordo superiore del riquadro perché si trova in una cappella e sembra così sostenere il soffitto stesso (infatti il corpo è muscoloso e teso). Dietro c’è la luce che emana Cristo e che illumina tutta la composizione. La luce definisce la varie figure ritagliandole da un fondo scuro e impastato. ULTIMA CENA (1594). La prospettiva è inusuale e dinamica, con un punto di fuga molto decentrato. Il tavolo a cui siedono Gesù e gli Apostoli è visto lateralmente mentre la stanza. La composizione è impostata sulla diagonale della tavola, mentre in primo piano spiccano servi e animali domestici, dando l’idea di un luogo rustico e popolare. L’ambiente è completamente buio, rischiarato solo dal lampadario a olio sospeso al soffitto e dalla luce emanata dalla testa dei personaggi sacri. Il Cristo, nel mezzo della tavola, emana una forte luce diventando il centro focale della composizione. L’altro punto di luce è la lampada sulla sinistra, verso cui convergono, in alto, angeli evanescenti. Tutto è estremamente cupo e teatrale. La luce diventa la protagonista principale e assoluta. Quella naturale della lampada si sovrappone a quella quasi fluorescente emanata da Gesù e dagli Apostoli. La luce ci guida sottolineando i gesti, le posizioni e le espressioni dei volti dei personaggi. La parte superiore è composta da una serie di angeli che appaiono smaterializzati perché sono rappresentati come fossero dei fantasmi. Sotto la linea del tavolo c’è invece il mondo quotidiano dei domestici e dei camerieri. La sensazione inquietante data dall’ambientazione buia, dai bagliori sparsi e dagli angeli quasi trasparenti, viene smorzata da questi piccoli accenni di quotidianità e da dettigli comuni come il gattino curioso in primo piano che si sporge dentro la cesta con le stoviglie mentre un cagnolino sotto il tavolo è pronto a saltargli addosso. |
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JACOPO BAROZZI detto IL VIGNOLA (1507 – 1573)
VILLA GIULIA (1550). Venne costruita come residenza estiva, fuori porta, per papa Giulio III, cui deve il nome. Come tutte le ville suburbane, Villa Giulia aveva un’entrata urbana e una sul giardino retrostante. La villa stessa costituiva la soglia tra due mondi. Il fronte urbano, del Vignola, è costituito da una severa facciata a due piani, ogni piano ha la stessa altezza. Ha al centro il triplice ritmo di un arco trionfale pienamente dettagliato, fiancheggiato da ali simmetriche di solo due finestre. La facciata è chiusa ad ogni estremità da un pilastro di ordine dorico. La parte posteriore della costruzione mostra la grande loggia di Ammanati che guarda sopra il primo dei tre cortili. La loggia dà accesso al giardino ed il passaggio al cortile centrale è ottenuto da due fughe di scale in marmo che conducono al cuore del complesso della villa per pranzare al fresco sfuggendo alla calura estiva. Questa composizione, articolata su tre livelli di logge coperte e decorate con statue di marmo e balaustre, è costruita intorno ad una fontana centrale: in questo ambiente fresco, riparato dal sole ardente, si dovevano tenere feste che duravano l'intero giorno. Progetta l’edificio tenendo conto dello spazio circostante e risolvendo la facciata (che dà sul giardino) con una grande esedra e il prospetto d’accesso con elementi lineari. Ha un’organizzazione simmetrica secondo l'asse principale, e articolazione in più zone attorno a tre giardini su livelli diversi. Inoltre combina superfici contrastanti: la facciata principale è planare con perimetro rettilineo, mentre quello posteriore è concavo a semicerchio. GIARDINO DI BOMARZO (1550 – 1563). Le statue monumentali che si incontrano nel parco sono davvero tante, e ognuna risponde con grande varietà e fantasia all’inevitabile necessità di sorprendere. Probabilmente intento del committente Pier Francesco Orsini era proprio questo, anche se il significato alla base dell’intero percorso rimane ancora oggi ignoto: creare un luogo di meraviglia, lasciando la mente libera d’incantarsi trasportata in un mondo unicamente costituito da creature fantastiche e da edifici strani. Il tutto immerso in una fitta vegetazione che contribuisce alla percezione di trovarsi racchiuso in un luogo magico, estraneo alla realtà. Qui non regna più alcun ordine: tra la natura selvaggia sono inseriti tempietti, animali mostruosi, fontane e statue colossali che si scoprono all’improvviso come se, per incantesimo, fossimo in una realtà tra il sogno e l’incubo. PALAZZO FARNESE (Caprarola, 1558 – 1573). Dall'alto si può ammirare la sua forma a pentagono con il cortile circolare al centro. Questo era in pendenza verso il centro, dove all'interno di esso era situata una "bocca della verità" che raccoglieva tutta l'acqua piovana che veniva usata per ogni bene di uso quotidiano. Probabilmente Vignola stesso progettò la sistemazione esterna, demolendo molte preesistenze del borgo, e progettando anche le facciate di alcuni edifici che fanno da quinta alla prospettiva di accesso. Originariamente tutt'intorno era circondato da un fossato. All’interno i vari ambienti sono suddivisi secondo uno schema preciso e moderno: la zona estiva a nord-est situata dove non batteva il sole; la zona invernale a sud-ovest situata dove batteva il sole. Inoltre le zone della servitù erano separate dalla zona del cardinale e vennero addirittura ricavate dallo spessore dei muri. Annesse alle stanze della servitù erano le cucine e i magazzini. In questa zona era alloggiata la scala del cartoccio, una rampa di forma elicoidale che permetteva di far scendere, mediante una guida scolpita nel corrimano, un cartoccio di carta, con all'interno sabbia o sassolini, in modo da far giungere velocemente ai piani inferiori messaggi riservati. Questo edificio dimostra una sorta di contaminazione tra le diverse tipologie, presentando una specie di palazzo-castello dalla pianta rettangolare, alla cui base si trova un’immensa scalinata disposta scenograficamente. CHIESA DEL GESU’ (1568). Ha una pianta longitudinale a una sola navata coperta da una volta a botte. Lungo la navata si sviluppano una serie di cappelle laterali dalla forma circolare e scarsamente illuminate per favorire la meditazione dei fedeli. La zona absidale è costituita da un ampio presbiterio e da due grandi cappelle laterali che formano quasi una specie di transetto. Il tutto è sovrastato da una cupola sul cui tamburo si aprono finestre che proiettano luce sull’altare. Il Vignola fonde così, in un unico organismo, la pianta centrale (privilegiata dal classicismo) e quella longitudinale (tipica della tradizione cristiana). L’effetto d’insieme dà forte risalto all’abside e fa dell’enorme aula il luogo per i fedeli, deputato al raccoglimento e alla preghiera. Quindi distingue bene gli spazi e i ruoli del fedeli e del clero. Questa soluzione architettonica si impose come modello vincente in epoca di Controriforma, perché si adattava bene alle nuove esigenze liturgiche che facevano dell’altare il fulcro della funzione religiosa e che volevano sottolineare la distanza tra sacerdote e fedeli. |
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