Le prediche dei francescani e dei domenicani iniziano a usare la lingua di tutti i giorni e immagini di forte efficacia espressiva. Questo comporta un coinvolgimento maggiore del fedele e un’inclusione del sacro nella vita terrena.
La tradizione pittorica bizantina, che dominava da tempo incontrastata in Italia, venne abbandonata alla fine del XIII secolo. L’ “inaccessibilità” di santi e figure bibliche bizantine lascia il posto a un’ “attualizzazione” delle immagini sacre: le figure sono vestite con abiti del tempo e inserite in ambienti credibili. Il pittore quindi invita il fedele a partecipare all’azione scenica, coinvolgendolo in una serie di motivi ripresi dalla vita quotidiana. Inoltre si superano le rigide stilizzazioni, la delineazione dei volumi, l’addolcimento delle linee e l’equilibrio dei colori. Viene ricomposta poi una dimensione architettonica attraverso l’applicazione pratica di princìpi prospettici. Questi, tuttavia, sono legati a una visione assonometrica, o per meglio dire isometrica (ovvero una figurazione che tende a mantenere inalterate le misure in profondità). Questo rinnovamento si mosse in tre centri artistici distinti, in modo diverso: - a Firenze si accentuano i valori plastici e drammatici (Cimabue, Giotto); - a Siena si accentua il carattere lineare delle forme e l’intensità del colore (Duccio da Buoninsegna, Simone Martini); - a Roma si recupera la tradizione paleocristiana (Cavallini). |
La TECNICA DELL’AFFRESCO consiste nello stendere i colori su un intonaco fresco in modo che vi si incorporino. |
CIMABUE (1240 -1302)
Le innovazioni di questo artista sono il deciso avvicinamento all’osservazione della natura, la scomparsa delle geometrie di sapore bizantino, lo sviluppo di un particolare chiaroscuro che usa sottili pennellate che scompongono ogni colore nelle sue gradazioni luminose. Alla sua nuova sensibilità spaziale si unisce una rappresentazione moderna della figura umana, che perde la fissità delle icone bizantine, acquista un nuovo volume corporeo e si anima di una profonda intensità espressiva. Nel 1272 trascorso un soggiorno a Roma dove conobbe la scultura antica. CROCIFISSO DI AREZZO (1270). L’imponente figura del Cristo morente disegna una linea curva accentuata. Le estremità dei bracci della croce accolgono le figure a mezzobusto dei dolenti. In alto c’è il cerchio con la figura di Dio. Quest’opera è ancora molto vicina alla stilizzazione bizantina, ma Cimabue usa un tratteggio finissimo che riesce a modulare il chiaroscuro con effetti molto sottili nei passaggi dell’incarnato. La struttura anatomica presenta ancora una sorta di assemblaggio di parti geometricamente definite e separate dalla resa pittorica. Il disegno è estremamente incisivo e i colori modellano la figura dandole volume e maestosità. Nel perizoma e nella croce (con gli elementi quadrati alle estremità) si nota un’abbondanza di preziosismi ancora legati al modello bizantino. Cimabue rinuncia ai particolari realistici, che con troppa crudezza alludevano all’agonia e alla morte, preferendo esprimere la sofferenza nell’inarcamento accentuato della figura. L’uso di un colore metallico e cupo accentua la drammaticità, come le larghe ombre nere che si allungano sul viso e sul corpo. CROCIFISSO DI FIRENZE (1280). La struttura dell’opera è simile a quella di Arezzo. Il Cristo sofferente, tema bizantino, viene portato a soluzioni inedite di naturalismo e di perfezione pittorica. Qui si nota quanto Cimabue cerchi un forte ideale di naturalezza nella continuità delicatissima del morbido chiaroscuro. L’anatomia non è più rigidamente spartita, ma sembra il risultato di un’osservazione dal vero. Anche l’uso di una tonalità verdastra, per il corpo del Cristo, rivela la necessità di distinguere un corpo morto dall’incarnato dei vivi. Per il perizoma non usa più lumeggia ture a oro, ma lo realizza solo con i mezzi pittorici e fa intravedere, attraverso il sottilissimo velo, il profilo del corpo. La torsione del corpo è ancora più appariscente e spinge la figura fino al limite estremo del tabellone, così da far sembrare più realistico il peso e l’abbandono del corpo alla morte. MAESTA’ DI SANTA TRINITA (1285 – 1286). Cimabue rinnova la tradizione iconografica dando una nuova vitalità alla Madonna: le gambe sono leggermente divaricate, la testa è inclinata e mostra un sorriso. La pelle è ancora olivastra (come nella tradizione bizantina), le mani sono leggere e non sembrano aver presa sul Bambino. La composizione è perfettamente simmetrica e la pittura è piana e lineare. Cimabue supera però la rigidità bizantina con una profonda umanizzazione delle figure e con una nuova sensibilità spaziale. La Madonna appare come una figura senza peso e ultraterrena, ma la tenerezza sul suo viso e su quello del Bambino è del tutto nuova. La Vergine è sostenuta da quattro profeti e affiancata dagli angeli. Le teste degli angeli sono inclinate alternativamente verso l’interno e verso l’esterno, perché nella pittura medievale è rara la raffigurazione di profilo (visto che la frontalità è simbolo di maestà). Nonostante il fondo oro, gli angeli accennano a vari piani di profondità e hanno corpi solidi, modellati alla maniera bizantina (le pieghe delle vesti sono ancora rigide e schematiche). Il trono è incastonato di ori e marmi. Il trono della Madonna si presenta come una complicata struttura architettonica già razionalmente costruita con un’impostazione prospettica-frontale, lontana dalla pozione tradizionale in tralice. |
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GIOTTO (1267 - 1337)
Probabilmente fu allievo di Cimabue, che costituì il suo punto di partenza. Giotto elaborò una sintesi nuova delle esperienze precedenti e contemporanee, unendole alle suggestioni provenienti dall’antico. Divenne già famoso e stimato in vita per la ricerca della resa della profondità spaziale e dell’umanità dei personaggi. Queste qualità colpirono i suoi contemporanei e segnarono un punto di svolta. È il primo artista che inizia a dipingere persone e non sagome, persone che con i loro gesti, posizioni e movimenti esprimono qualcosa di unico e personale. Le innovazioni più significative sono la costruzione di un nuovo spazio visivo e la fusione tra la luce e il colore. Giotto inoltre conferisce nuova importanza agli aspetti della vita quotidiana e dei sentimenti, trattandoli con fine psicologia e con uno straordinario equilibrio. Giotto quindi abbandona le immagini piatte di derivazione bizantina e indaga il vero. Il vero viene però inteso da diversi punti di vista: anatomico e della sofferenza umana; fisiognomico e delle espressioni; psicologico e della resa dei sentimenti e degli affetti; della realtà, con l’inserimento di dettagli reali e quotidiani anche dentro a episodi religiosi; degli spazi, con la sua incredibile capacità di capire lo spazio e di riprodurlo. Lavorò nelle più importanti città dell’epoca: a Firenze, Assisi, Padova, Rimini, Roma, Napoli, Milano e quindi ebbe grande influenza sullo stile delle scuole delle diverse regioni, dando vita a tutti quegli artisti chiamati “giotteschi”. CHIESA SUPERIORE DI SAN FRANCESCO (Assisi, 1295 – 1300). La Basilica era stata costruita per contenere le reliquie del santo (morto circa 70 anni prima). In quest’opera sono già presenti le caratteristiche innovative del linguaggio figurativo di Giotto: l’interesse per la drammaticità della scena rappresentata; la sensibilità alle proporzioni e a rappresentare i cambiamenti di luce; l’interesse per la resa di una spazialità realistica. Giotto raffigura le storie di San Francesco nel registro più basso della navata. Le impagina in gruppi di tre scene divise da finte colonne tortili, unificate (in basso e in alto) da una falsa mensola prospettica e da un finto soffitto a lacunari. Le scene sono studiate per estendere lo spazio reale in quello immaginato della narrazione. Dilata quindi illusoriamente lo spazio delle pareti e fa apparire le scene dipinte come viste attraverso un porticato aperto sull’esterno. Gli edifici, le rocce, le posizioni dei personaggi in tralice, tutto concorre a creare uno spazio reale. Le figure sono vive, descritte realisticamente ed esprimono sentimenti e moti dell’animo. C’è un’estrema diversità nel rappresentare le singole espressioni facciali e le vesti dei personaggi. Nella rappresentazione dei personaggi non c’è alcun motivo di riallacciarsi alla tradizionale raffigurazione gotico-bizantina, perché qui si nota la volontà di evidenziare i corpi. Grazie al chiaroscuro, quindi Giotto conferisce naturalezza e volume alle figure che sembrano emergere dal piano dell’affresco. Questa sensazione è accresciuta dalla profondità dei paesaggi retrostanti che a volte citano anche edifici realmente esistenti ad Assisi per coinvolgere maggiormente gli osservatori. CROCIFISSO (1290 – 1300). Il corpo di Cristo è appoggiato contro un pannello decorato, ai lati del braccio corto della Croce sono dipinti poi la Vergine a sinistra e San Giovanni a destra. In alto al sommo della Croce è dipinto un rettangolo rosso con le insegne di Cristo. Inaugura una nuova iconografia della Crocifissione, descrivendo un corpo reale, greve, pesantemente accasciato sulla croce, inclinato verso destra (esaspera così l’iconografia del Cristo patiens). L’anatomia è stata osservata dal vero e rappresentata nei valori plastici e luministici, creando così un grande impatto espressivo. Il corpo di Cristo non è inarcato forzatamente verso sinistra, ma, tende verso il basso. Per aumentare il senso di tridimensionalità e di realtà Giotto ha dipinto i piedi di Cristo sovrapposti e fermati da un solo chiodo. La natura umana del Cristo prevale su quella divina e il corpo reca tracce dolorose dell’agonia. Il corpo di Gesù è magro e visibilmente provato dalla Passione che lo ha portato alla morte. Infatti sulla sinistra del torace è visibile un fiotto di sangue che esce dalla ferita al costato. Dalle ferite alle mani scendono altri rivoli di sangue come dal costato e dai piedi. Intorno ai fianchi è stretto un velo e i piedi in basso sono fissati alla croce da un grosso chiodo. La testa ricade pesantemente in avanti, le braccia sono tese drammaticamente (quasi al limite della lacerazione) e aumentano il senso di pesantezza del corpo. Non c’è più nulla dell’equilibrio compositivo di Cimabue ed è totalmente nuova l’incredibile capacità di caratterizzazione fisica e psicologica. Il chiaroscuro su tutto il corpo enfatizza il volume. Il corpo stesso sembra staccato dalla croce, quasi fosse una scultura. Il volto ha lineamenti delicati, di una bellezza “classica”. Anche la perfezione anatomica richiama modelli scultorei antichi. MADONNA OGNISSANTI (1306). Qui Giotto recupera degli stilemi arcaici, come lo sfondo dorato e la dimensione gerarchica delle figure, ma i corpi sono plastici e naturali. Un trono gotico con scorci molto arditi (un’edicola con due strette ante laterali aperte che accentuano l’illusoria profondità), ospita la figura di Maria, potentemente volumetrica e tridimensionale. La Vergine si impone nella sua solida corporeità, definita dalla posa frontale e dalle pieghe del panneggio che rivelano le forme sottostanti. E’ una figura scultorea, di grande volume e masse che sostiene un bambino massiccio. Nella figura della Madonna, Giotto abbandona la solennità in favore di una resa più naturale e umana, Maria infatti accenna una sorta di sorriso. Giotto usa il colore con stesure regolari e compatte per avere un effetto di costruzione volumetrica. Le figure laterali sono disposte su piani scalati e alcune si intravedono appena e sono di scorcio, questo è un effetto di profondità reale. Gli angeli in primo piani introducono un ulteriore elemento di profondità prospettica. CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI (Padova, 1303 – 1304). E’ una piccola chiesa interamente affrescata da Giotto su commissione di Enrico Scrovegni, uno di più rappresentativi e ricchi personaggi emergenti nella Padova di quegli anni. La sua scelta di far fare e fare affrescare la Cappella fu fatta per voler rimediare ai tanti peccati commessi nel suo lavoro (soprattutto quello dell’usura). La cappella è una struttura architettonica semplice di dimensioni contenute: un’unica navata coperta da una volta a botte, con una piccola abside al fondo coperta con una volta a crociera. Il programma iconografico è complesso perché Giotto prese spunto dalla Leggenda Aurea e dai Vangeli apocrifi. Rappresenta le storie di Gioacchino e Anna (i genitori di Maria) e le storie della Vergine e di Cristo. La narrazione (che conta 39 scene) inizia dal fondo della chiesa si sviluppa su tre registri, sulle pareti laterali e continua sull’arcone trionfale. C’è anche una quarta fascia (in basso) dove sono rappresentate le allegorie dei Vizi e delle Virtù. Mentre nella controfacciata è rappresentato il Giudizio Universale. Viene considerata l’esempio perfetto della maturità stilistica di Giotto. Rispetto agli affreschi della Basilica di S. Francesco ad Assisi, qui compie un ulteriore passo in avanti in direzione naturalistica. Lo spazio diventa tridimensionale e Giotto usa una prospettiva intuitiva per dare profondità alle scene, creando spesso effetti illusionistici che imitano finte architetture. La composizione si va complicando in corso d’opera, i personaggi si moltiplicano e lo spazio appare sempre più unitario. Le figure acquistano solidità e viene rappresentata una vasta gamma di posizioni ed espressioni profondamente umane che rivoluzionano il fisso sistema iconografico bizantino. Hanno un volume reale e sono coperte da grossi mantelli che aiutano a esaltarne la tridimensionalità. Le figure non sembrano sospese in aria, ma poggiano realmente su un piano di appoggio plausibile. Il tono narrativo è solenne e misurato. I gesti sono equilibrati e mai confusi, anche nelle scene più affollate e ricche di pathos. Le figure appaiono grandiose come monumentali statue classiche. L’analisi dei sentimenti umani raggiunge livelli di forte intensità e di grande delicatezza. I volti sono espressivi e gli sguardi penetranti. I volti si svincolano dalla frontalità (tipica de Medioevo e dell’arte bizantina) le figure e i volti vengono rappresentati anche di profilo o da angolazioni varie (perfino da sotto in su). La natura è studiata dal vero, le scene sono collocate in paesaggi reali. L'azzurro naturalistico dei cieli rappresenta la cupola del paradiso e collega le diverse scene del ciclo. BACIO DI GIUDA. In un momento di agitazione generale in cui un gruppo di uomini armati brandisce lance e bastoni, Giuda si avvicina a Gesù e lo bacia. Gesù lo guarda attonito mentre Giuda mantiene uno sguardo distaccato (successivamente Gesù verrà arrestato dalle guardie romane). Disponendo le figure naturalistiche in una fitta composizione, Giotto ha catturato l'essenza drammatica della scena in cui Giuda consegna Cristo ai soldati romani. Ha rappresentato questo momento drammatico con efficacia: i corpi, possenti e ricoperti da ampie vesti panneggiate, danno un grande senso di movimento a tutta la scena, mentre i volti esprimono il coinvolgimento, al tensione e l’ansia degli uomini che partecipano all’evento. Per le vesti dei soggetti, Giotto usò rossi, arancioni, gialli e verdi accesi, enfatizzando la tensione emotiva con mezzi audaci e insoliti per l'epoca. Basandosi su espressioni facciali della vita reale, Giotto mostrò i tratti angosciati di Giuda che bacia un Cristo calmo e rassegnato. Sullo sfondo, il motivo delle lance, delle fiaccole e dei bastoni dirige l'occhio verso il punto focale della scena. I particolari del paesaggio, la disposizione dei personaggi, i loro abiti, le loro interazioni rivelano la volontà di ricostruire una situazione concreta e di rendere la spontaneità di persone reali. COMPIANTO SUL CRISTO MORTO. Rappresenta la madre di Cristo e i seguaci che piangono la sua morte. La metà inferiore dell'affresco è popolata da figure affrante dal dolore, i cui gesti e i tratti naturalistici del viso guidano l'attenzione dello spettatore sul Cristo morto. Oltre a garantire la profondità, il dorso della montagna alle spalle delle figure forma una diagonale che conduce l'attenzione dello spettatore verso il volto di Cristo. CAPPELLA PERUZZI (S. Croce, 1313 – 1315). Il ciclo di pitture a secco raffigura le storie di San Giovanni battista e di San Giovanni Evangelista. Gran parte degli affreschi sono stati eseguiti a secco e quindi sono in cattivo stato di conservazione. L’impatto compositivo è largo e monumentale. Lo stile, rispetto agli affreschi precedenti, appare più scarno e semplificato, ma il progresso della visione spaziale è evidente. Lo spazio è costruito con maggiore ariosità, dando a ogni figura uno spazio di pertinenza plausibile e visivamente corretto. Giotto qui giunge quasi alla piena comprensione delle leggi della prospettiva. Lo stato di conservazione attuale delle pitture è fortemente compromesso da diversi fattori succedutisi nel tempo (non tra ultimi l'ampio ricorso della pittura a secco invece che a fresco), ma non impedisce di vedere la qualità delle figure rese plasticamente da un attento uso del chiaroscuro e caratterizzate dallo studio approfondito dei problemi di resa e rappresentazione spaziale. In questi affreschi si nota un'evoluzione dello stile di Giotto, con panneggi ampi e debordanti come mai visto prima che esaltano la monumentalità delle figure. Le architetture sono inoltre disposte in maniera più espressiva, con vivi spigoli che forzano alcune caratteristiche delle scene; dilatandosi in prospettiva che continuano oltre le cornici delle scene fornendo un'istantanea dello stile urbanistico del tempo di Giotto. Questa scelta è anche funzionale alla ristrettezza della cappella, alta e profonda ma piuttosto stretta, che così viene dilatata dallo spazio dipinto e si perfeziona per una veduta non tanto dal centro, ma dalla soglia. All'interno di queste quinte prospettiche, si sviluppano le storie sacre composte in maniera calibrata nel numero e nel movimento dei personaggi. CAPPELLA BARDI (S. Croce, 1325). Il ciclo di affreschi a secco rappresenta le storie di San Francesco che riprendono aggiornandoli in senso più espressivo gli stessi temi delle Storie di san Francesco della Basilica superiore di Assisi. Giotto rinnova l’iconografia inserendo gli episodi in un composizione ampia, di solenne impronta classicheggiante e in un impianto compositivo di rigorosa osservanza prospettica. I personaggi sono disposti anche di tre quarti per aumentare la resa della profondità spaziale. Giotto preferì dare maggiore importanza alla figura umana, accentuandone i valori espressivi, probabilmente, per assecondare la svolta in senso di rinuncia dei beni operata dall’ordine francescano. I colori sono più grigi e si assiste a una maggiore sobrietà. Anche la resa è più sommaria, con pennellate più veloci, ma molto espressive. Le composizioni sono molto semplificate ed è la disposizione delle figure a dare il senso della profondità. Rispetto agli affreschi di Assisi, i fondali non sono più scatole chiuse, ma seguono un ordinamento spaziale più aperto e dagli affetti grandiosi. Accentuata è inoltre la resa delle emozioni con gesti eloquenti, come quelli dei confratelli che si disperano davanti alla salma distesa, con gesti ed espressioni incredibilmente realistici, ma di drammaticità pacata. Un'altra novità, già in uso nella Cappella Peruzzi, è l'uso di panneggi larghi e gonfi, che accentuano la presenza volumetrica e plastica dei corpi che avvolgono. Svanita è invece la vivacità delle scene visibili ad Assisi, sacrificata ad una maggiore sacralità aulica. |
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DUCCIO DI BUONINSEGNA (1255 - 1319)
Come Cimabue, la sua formazione artistica è di derivazione bizantina. Ma mentre Cimabue privilegia la rappresentazione tridimensionale dei volumi e la loro collocazione all’interno di uno spazio reale, Duccio si concentra sull’eleganza delle linee e sulla raffinata armonia dei colori. Scioglie la rigida schematicità della pittura precedente, nel morbido fluire della linea, conservando lo splendore cromatico e l’intensità espressiva propri dell’arte bizantina. MADONNA RUCELLAI (1285). La Vergine è dipinta al centro, seduta su un trono, il suo corpo è orientato verso destra e in braccio tiene il Bambino. Il mantello blu bordato con una decorazione dorata copre interamente la figura della Vergine. Gesù Bambino, invece, è rivolto a sinistra e indossa solo un telo rosa intorno al bacino. Ha il braccio destro alzato e benedice con la mano. Il trono è massiccio e molto elaborato. Il trono è in tralice ed è alleggerito e impreziosito con grande raffinatezza (rispetto a quello di Cimabue). Inoltre, sullo schienale è presente un telo decorato. Tre angeli sono inginocchiati a destra e altri tre a sinistra. I loro corpi sono sovrapposti verso l’alto e non poggiano su un piano. Duccio sceglie di schierare gli angeli di profilo inginocchiati, come sospesi nell’aria, mentre Cimabue aveva dato loro una dimensione più monumentale e corporea. Inoltre la Madonna solenne e austera di Cimabue viene tradotta in modo più dolce e malinconica. L’immagine viene costruita usando come mezzo espressivo prevalente la linea di contorno. In questo si coglie ancora l’influenza della tradizione bizantina che era ancora molto sentita a Siena. La linea sinuosa ed elegante infatti segna il profilo dorato della veste di Maria in un arabesco nervoso, mentre i panneggi degli angeli sono composti da curve morbide e sinuose. Il fondo luminoso in oro crea un forte contrasto con le figure dipinte. Domina la simmetria e l’unico tipo di prospettiva è quella a bande orizzontali. Infatti le figure non presentano indicatori spaziali se non la sovrapposizione delle forme. Inoltre, la loro dimensione minore rispetto alla Vergine, simboleggia la diversa importanza delle figure. MAESTA’ (1308 – 1311). Era la pala d’altare del Duomo di Siena e le dimensioni originali erano di quasi 5 X 5 metri. E’ dipinta sui due lati e anticipa le forme del polittico trecentesco. Ha un’iconografia complessa, che comprende circa 60 episodi e immagini singole. Sul FRONTE nella parte centrale c’è la Madonna con Bambino su un trono marmoreo, circondati da angeli e santi disposti simmetricamente ai lati. Nella fascia in alto ci sono gli Apostoli a mezza figura. Le dimensioni della Madonna e del Bambino sono molto maggiori di quelle degli altri personaggi come vuole la prospettiva gerarchica tipica del Medioevo. Le linee che contornano le figure sono morbide e sinuose: lo si vede nel profilo dorato del bordo del mantello della Vergine e di Gesù bambino. Anche i colori usati danno alla scena un senso di generale armonia, senza contrasti troppo forti. Nel trono della Vergine Duccio costruisce uno spazio fisico al cui interno viene situata la Vergine, secondo una prospettiva intuitiva. Il trono è un’ “architettura” tridimensionale e anche il bambino è massiccio e con un forte senso del volume. Nei volti si nota una capacità nel variare l’espressione degli stati d’animo, descrivendo con delicatezza la malinconia degli angeli rivolti verso il Bambino. Lo stile gotico si vede proprio da questa sensibilità per i sentimenti, dall’uso di profili lineari sinuosi e di raffinate stesure pittoriche (che restituiscono la trasparenza delle stoffe preziose e la morbidezza degli incarnati). Sul RETRO ci sono le storie della Passione di Cristo suddivise in 26 episodi, con al centro un doppio pannello dedicato alla Crocifissione. Il racconto è dettagliatissimo e i numerosi personaggi sono descritti analiticamente. Tutto è unificato da una luce tersa che, nonostante il persistere del fondo oro, allude all’atmosfera creata da una luce naturale. Il cromatismo è intenso, saturo e vivo. Gli influssi del Gotico francese sono evidenti: le linee di contorno sono morbide e sinuose e la scelta dei colori si accorda perfettamente con la loro elegante nitidezza. Ma sono evidenti anche gli influssi di Giotto nella ricerca di un maggior realismo dei personaggi e nella dolcezza del chiaroscuro. Lo sfondo continua però a essere dorato e le dimensioni dei personaggi non sono naturali, non obbediscono a nessuna legge prospettica, ma seguono la gerarchia di importanza. L’organizzazione dei personaggi è di tipo medievale, molte figure si accumulano e c’è una grande attenzione ai dettagli. Domina la corrente irreale e astrattizzante. |
SIMONE MARTINI (1284 - 1344)
La sua formazione è influenzata da Duccio da Buoninsegna (forse suo maestro), ma anche dalle sculture di Giovanni Pisano, dall’opera di Giotto e dalla conoscenza della pittura gotica francese. Viaggiò e lavorò in Europa, contribuendo a formare la corrente del “Gotico Internazionale”. MAESTA’ (1315). Presenta innumerevoli novità iconografiche, stilistiche e tecniche. Inserisce nella pittura materiali eterogenei (carta, vetro, oro) che innescano una sottile ambiguità tra realtà e finzione. Una struttura a baldacchino (leggera ma consapevole dei valori spaziali di Giotto) inquadra la composizione complessa in cui Maria si staglia contro un trono gotico. Lo stile è caratterizzato da un linearismo morbido e fluente che disegna le figure, da un colorito tenue e da delicati passaggi di luce negli incarnati e nel trattamento prezioso delle vesti. I santi e i profeti che si affollano attorno al trono rompono definitivamente le rigide convenzioni rappresentative della tradizione bizantina. Lo sfondo non è più oro, ma di un blu intenso che contribuisce a dare un rilievo ancora maggiore al gruppo compatto dei personaggi. GUIDORICCIO DA FOGLIANO (1330). L’affresco si trova in una sala del Palazzo pubblico di Siena e raffigura un condottiero che conquistò due fortezze per la città di Siena. E’ quindi un affresco laico e commemorativo. Al centro dell’affresco Guidoriccio da Fogliano cavalca verso sinistra. Il cavaliere indossa un abito molto decorato che sottolinea l'importanza anche il cavallo indossa una mantello realizzato con lo stesso tessuto. Il mercenario cavalca di profilo, con un atteggiamento serio e determinato, consapevole del suo valore. Il cavaliere è rappresentato perfettamente di profilo e sembra ripresi da un’immagine delle monete romane. Cavalca all’interno di un paesaggio collinare. A destra, in basso, si nota un accampamento militare. Verso sinistra, invece, si nota una fortezza protetta da spesse mura perimetrali sulla quale sventola la bandiera senese. Le due costruzioni riprodotte sullo sfondo sono i due castelli conquistati. Inoltre, l’accampamento deserto a destra è quello dell’esercito sconfitto. Infine, le bandiere e gli scudi bianco neri rappresentano la balzana, l’insegna di Siena. Può essere una pittura realistica perché non è legato alla religione. Quindi il cielo è azzurro e il paesaggio è più realistico. ANNUNCIAZIONE (1333). Lo stile segna un punto di svolta, sviluppandosi interamente in una dimensione più aristocratica e rarefatta. La scena segue la tradizione e infatti vediamo l’arcangelo a sinistra, in ginocchio, e la Madonna, a destra, in piedi o seduta, con un libro in mano e con un gesto di paura espresso dal corpo. A questi elementi Simone Martini aggiunge un vaso di gigli al centro (fiori che simboleggiano la verginità di Maria) e la colomba che raffigura lo Spirito Santo. L’arcangelo si protende in avanti porgendo alla Madonna un ramo d’ulivo mentre le vesti ancora gli svolazzano e le ali sono spiegate come se avesse appena fermato il volo. La figura dell’angelo è sfolgorante, il manto sollevato elegantemente dal vento ricorda la forma delle ali. Quasi invisibile è una sorta di fumetto in rilievo che esce dalla bocca dell’angelo, come il saluto che questo rivolge alla Vergine “Salve, piena di grazia, Dio è con te” (l’inizio dell’Ave Maria). La Madonna, seduta su un trono posto obliquamente, presenta una torsione del corpo verso destra. Maria ha un profilo risolto con linee curve contrapposte ed è raffigurata in un gesto iconograficamente nuovo: sembra si ritragga all’arrivo dell’angelo con un gesto di timore/pudore anche se contemporaneamente gira la testa verso di lui. Le figure si distaccano dallo sfondo per le loro linee nette di contorno. In un grande ricamo dorato si inseriscono frammenti di natura morta di sorprendente modernità (come il vaso con i gigli). L’ambiente in cui si svolge la scena è un interno, come si deduce dal pavimento in marmo rosso e dagli archi a sesto acuto polilobati sormontati da pinnacoli, ma la profondità è annullata dal luminoso fondo oro che toglie consistenza alla parete. La scena include anche due figure di santi nelle ali laterali, separati dalla scena principale attraverso delle eleganti colonnine tortili (cioè con il fusto attorcigliato su se stesso), anch’esse dorate. Nel dipinto ci sono molti simboli. In alto, al centro della scena, c’è la colomba circondata da angeli che rappresenta lo Spirito Santo che scende su Maria. L’arcangelo Gabriele la indica, e con l’altra mano porta un ramoscello di ulivo, simbolo di pace. I gigli invece alludono alla purezza di Maria. |
AMBROGIO LORENZETTI (1290 - 1348)
Ambrogio Lorenzetti fu vicino alla cultura fiorentina, alle ricerche spaziali di Giotto e alla solenne monumentalità di Arnolfo di Cambio. Alla prospettiva giottesca che tentava di definire la reale collocazione dei personaggi nello spazio, Ambrogio contrappone una visione della realtà personale e fantasiosa in cui tutte le figure vengono ridotte a preziosi arabeschi decorativi. Invece della solidità dei personaggi giotteschi, preferisce quindi la dolce sinuosità delle linee di contorno che racchiudono campiture di colori omogenei e squillanti. CICLO DEL BUON GOVERNO E DEL MAL GOVERNO (Siena, 1337 – 1339). Diversamente dai soggetti dell’arte dell’epoca, il tema è completamente profano; qui non c’è nessuna storia sacra, ma l’allegoria (cioè la raffigurazione di un concetto astratto con immagini concrete) del cattivo governo e delle conseguenze negative che produce (povertà, carestia, degrado, violenza) e quella del buon governo e dei suoi effetti positivi (benessere, prosperità, pulizia, ordine, gioia). Si tratta quindi di una specie di manifesto di propaganda politica nel quale il buono e il cattivo governo sono personificati rispettivamente da un re saggio e da un diavolo. Tutto questo viene fatto nel Palazzo Pubblico di Siena per ricordare, a chi amministra la città, di agire sempre per il bene della comunità. Nell’ALLEGORIA DEL BUON GOVERNO c’è un complicato intrecciarsi di figure simboliche. Guardando l’affresco da sinistra vediamo: la Giustizia è seduta su un grande trono e assicura il giusto peso (sia alla distribuzione di pene e premi sia agli scambi commerciali). Sopra di lei c’è la Sapienza e sotto la Concordia che leviga le asperità. Dalla Concordia parte una corda che lega i ventiquattro saggi sottostanti, cioè coloro che negli anni precedenti avevano portato Siena allo splendore. Il Buon Governo è rappresentato come un uomo anziano, anche lui seduto in trono, vestito con i colori di Siena. Lo affiancano la Pace, la Fortezza, la Magnanimità, la Prudenza, la Temperanza e la Giustizia. Sopra queste virtù umane ci sono rappresentate la Fede, la Carità e la Speranza, virtù teologali, cioè riferite a Dio. Nell’angolo in basso a destra troviamo l’esercito che assicura la protezione della città e imprigiona i nemici. I corpi non hanno un rilievo massiccio, ma sono evidenziati da un armonico susseguirsi di linee curve. Gli EFFETTI DEL BUON GOVERNO IN CITTA’ E IN CAMPAGNA è un affresco lungo 14 metri che rappresenta la città di Siena e il contado circostante. Qui, per la prima volta, il paesaggio diventa il soggetto principale. Nella rappresentazione della città, irta di torri in muratura e di splendidi palazzi, viene sottolineata la maestosità degli edifici e la pacifica operosità degli abitanti. Vediamo le porte della città aperte per la libera circolazione dei mercanti e dei cittadini. All’interno delle mura ferve la vita: gli artigiani lavorano, i bottegai vendono i prodotti portati dai contadini o dai mercanti, i maestri insegnano, i muratori costruiscono edifici. Al centro un gruppo di donne suona, canta e balla in cerchio per rappresentare la serenità che si respira in città. La campagna rispecchia gli stessi principi di ordine e operosità della città. Vediamo campi ben coltivati e strade sicure. Nell’ALLEGORIA DEL MAL GOVERNO il governante è caricaturizzato rappresentandolo come un demonio, corrotto e maligno. Intorno a lui ci son le allegorie della Guerra, della Discordia e dei Vizi, che gli fanno da consiglieri. Negli EFFETTI DEL MAL GOVERNO IN CITTA’ E IN CAMPAGNA vediamo che la città mal governata è piena di ladri e tutto va allo sbando. L’affresco, molto rovinato, ci mostra il territorio alla mercé degli eserciti: i villaggi sono incendiati e distrutti, la campagna non dà più alcun raccolto e vediamo campi incolti e rovine. In città le case vanno in rovina e le strade non sono sicure: vediamo un uomo ucciso e una donna che viene rapita. Chi esce dalla porta della città deve armarsi. Non c’è, nonostante l’apparenza, alcun desiderio di rappresentazione realistica, non si tiene conto delle regole geometrico-prospettiche e delle regole della visione realistica. Nonostante la rappresentazione delle architetture sia una via di mezzo tra la prospettiva e l’assonometria, riesce a dare un’idea chiara della città e, grazie ai colori brillanti, anche un’immagine piena di vita. La tridimensionalità è resa sia dalla luce, proveniente da sinistra, che permette di distinguere le due facce degli edifici, sia dalla progressiva diminuzione delle dimensioni dei palazzi e delle persone via via che si allontana lo sguardo. I colori sono delicati e allegri nella città ben governata e diventano cupi in quella mal governata, per sottolinearne l’insicurezza l’artista usa le gamme dei grigi e dei marroni. |
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PIETRO CAVALLINI (1250 - 1330)
La sua origine romana determina una tenace aderenza alle antiche tecniche pittoriche e musive di tradizione paleocristiana e tardo-antica. Questo conferisce alla sua produzione artistica un senso di maestosità classicheggiante a cui gli influssi gotici aggiungono una linea sciolta e delle forme morbide. CICLO MUSIVO (s. Maria in Trastevere, 1291). Si tratta di sei scene, posizionate in altrettanti riquadri che rappresentano gli episodi della vita di Maria: la nascita della Vergine, l’Annunciazione, la Natività, l’Adorazione dei Magi, la presentazione al Tempio, la morte di Maria. Ad esse ne ha aggiunta una settima, posta in un registro più basso: è la dedicazione dell’opera in cui si vede il suo committente presentato da San Pietro e San Polo, offrire i mosaici alla Vergine. Così le sue sei scene sono bizantine anch’essi nei fondali d’oro che le contraddistinguono così come nelle eleganti cornici che le racchiudono. E sono bizantini i ricchi tendaggi della Nascita della Vergine ed i volti di Maria, sempre un po’ iconici. Ma qui ci fermiamo. Perché poi c’è il mosaico che torna a raccontare scene di vita come aveva fatto per secoli nella Roma antica. E Pietro Cavallini dipinge, dipinge usando le tessere del mosaico come fossero pennellate. Gioca sulle sfumature di colore di minutissime tesserine per generare chiaroscuri che dipingono senza necessità di usare i contorni neri dei visi altomedievali. Reinventa la tecnica del mosaico riuscendo a ottenere un’illusione di profondità spaziale con l’uso della prospettiva e del chiaroscuro (applicato per la prima volta al mosaico) che conferisce una netta consistenza volumetrica. Poi c’è la prospettiva, la tridimensionalità che gli artisti romani conoscevano assai bene, sia che si trattasse di affreschi che di mosaici. AFFRESCHI (S. Cecilia in Trastevere, 1293). La scelta della tecnica dell'affresco offre notevoli spunti stilistici che il mosaico non permette, soprattutto nei panneggi che con il chiaroscuro danno alla scena rappresentata una tridimensionalità e una potenza espressiva di grande spessore drammatico. In questi affreschi riesce a fondere un’esigenza di realismo classicheggiante con il gusto gotico per le armoniose giustapposizioni di colore. La figura del Cristo redentore non ha più l’astratta ieraticità dei Pantocrator romanico-bizantini. Il chiaroscuro modella il volto e le vesti fino a darcene una visione realisticamente tridimensionale, pervasa di una serena umanità. L'opera di Cavallini è particolarmente innovativa perché egli sa infondere una presenza fisica e un volume del tutto estranei alla maniera bizantina: i panneggi non sono ripetitivi, ma variano a seconda della posizione delle membra, i volti sono raffigurati con individualità, la cromia è varia, il chiaroscuro è morbido e raffinato, ma non costipato, grazie a lumeggiature e ombre scure nei solchi più profondi. |
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