ACTION PAINTING o ESPRESSIONISMO ASTRATTO
Domina gli anni ’40 e unisce la violenza espressiva all’assenza di forme riconoscibili. Le caratteristiche principali sono: - le grandi dimensioni delle opere; - la piattezza delle superfici (cioè l’abolizione dell’illusione della profondità e il colore privo di rilievi come una tintura); - l’importanza del gesto di dipingere come espressione diretta dell’esperienza dell’artista. Si chiama “Action painting” perché è una pittura che fissa il movimento, l’azione stessa dell’artista. Non raffigura nulla, ma coglie e fissa l’evento, il processo nel suo accadere. La presenza fisica dell’autore si fa sentire concretamente nello spazio dell’opera. |
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JACKSON POLLOCK (1912 - 1956)
Prima di approdare alla tecnica del dripping, la sua opera attraversò molte fasi. Dopo il trasferimento a New York nel 1929 studiò con un pittore figurativo che realizzava quadri rappresentando la vita delle cittadine e degli abitanti rurali del Midwest americano. Lo stile ritmico, ondulato e figurativo del maestro influenzò gli anni successivi di Pollock, accanto alle opere dei muralisti messicani che includevano una profusione di dettagli nelle loro composizioni. Nel 1939 iniziò a sottoporsi alla psicoanalisi e, come i surrealisti, si interessò all’inconscio. I disegni facevano parte della terapia e presto, nella sua opera, iniziarono a comparire figure mitiche o simboliche, ricche di significati. Nel frattempo aumentava il grado di astrazione dei dipinti, con colori applicati in maniera sempre più rapida e quasi violenta.
Pollock fin da ragazzo studia arte, guarda Picasso, i Surrealisti e i muralisti messicani degli anni Trenta. Verso la metà degli anni ’40 arriva a creare opere quasi del tutto astratte. Nel 1947 Pollock iniziò a sviluppare la cosiddetta “action painting” con la tecnica del “dripping” (sgocciolatura), che consiste nello stendere la tela (o i cartoni) sul pavimento, nel sopprimere il pennello e sostituirlo con gocciolature, più o meno regolari, di colori sintetici puri (industriali e molto fluidi. Il colore viene fatto colare dal pennello (che non tocca la tela) o con utensili non ordinari come coltelli, spatole, pennelli induriti, pipette per ungere la carne o direttamente dal barattolo. Questa tecnica è resa possibile anche dal basso costo di queste nuove miscele sintetiche che non si comprano in tubetto, ma in barattoli da almeno cinque litri, come le pitture murali. Con questa tecnica Pollock ottiene grovigli filamentosi di colore che si sovrappongono gli uni agli altri in un caotico intreccio di schizzi, gocce e colature. L’artista lavora la tela stesa a terra, danzandoci attorno e sopra in ascolto della parte più profonda della propria anima, lasciandoci gocciolare il colore. I movimenti ampi e vigorosi erano rapidi e impulsivi; invece di rappresentare un oggetto o un soggetto esterno, la superficie registrava l’atto stesso del dipingere. Da questa tecnica ne deriva un andamento che non prevede un sopra-sotto, o un destra-sinistra; annulla ogni direzionalità e si spinge nel “all over” (pittura a tutto campo). Rifiuta quindi il concetto tradizionale di composizione e usa uno stile integrale, senza punti focali: senza “né inizio né fine” come lo definì il pittore stesso. Seguendo l’istinto e “disegnando nell’aria”, Pollock si muoveva ritmicamente attorno alla tela, schizzando la pittura sulla superficie, un metodo che aveva molto in comune con le pitture di sabbia dei nativi americani (Navajo) e l’automatismo surrealista. Il segno proviene dall’azione di tutto il corpo dell’artista, per questo si chiama action painting. Pollock vuole eliminare il più possibile la mediazione tra materia e corpo, vuole superare l’attrito che il polso e il pennello creano con la materia. L’artista quindi può ora esprimersi con tutto il corpo, muovendosi attorno alla tela, immergendosi in essa, secondo un’evoluzione della tecnica surrealista della scrittura automatica. Il dipinto nasce come dichiarazione di uno stato d’animo, di una visione della propria interiorità, ma anche del mondo esterno come ambito di azione per pulsioni e forze violente. È sentito come un’eruzione libera dell’inconscio. Il risultato è un fitto groviglio di segni stratificati, espressione dell’Io dell’artista: macchie, strisce, filamenti che registrano i gesti compiuti dal pittore. Per la prima volta non conta solo il risultato, ma diventa importante anche il processo creativo di realizzazione con cui l’artista esprime le pulsioni che sente dentro di sé. FORESTA INCANTATA (1947). Qui tecnica e soggetto si amalgamo in un’unica ragnatela di schizzi. La tecnica del dripping non è affidata al caso come può sembrare, ma risponde a un disegno controllato: Pollock insiste per essere fotografato e filmato mentre lavora, per far vedere che il suo metodo è fondato su un uso consapevole del colore. Le trame di colore non coprono completamente il fondo della tela che viene trasformato in un novero di interstizi. Siamo di fronte quindi a un intrico contorto, spesso, di linee nere. Sul fondo si intravede la tela bianca, sopra compaiono spruzzi di vernice rossa. La composizione non ha un centro. Lo sguardo segue il colore nero che si congiunge, poco più in là, con un’ombra rossa. D’improvviso si spalanca uno spazio bianco: ai lati della tela si incontrano, in un’unica massa, segni brevi e lunghi di colore. ONE: NUMBER 31 (1950). Questo è il risultato di ripetuti passaggi sulla tela della mano che, usando ogni volta un colore diverso, cerca di distribuirlo fino a coprire l’intero spazio a disposizione. Il dipinto registra i movimenti di Pollock sulla tela e gli strati di pittura si combinano in una rete ritmica di motivi, linee e curve. I colori spenti creano un’atmosfera riflessiva e spingono l’osservatore a concentrarsi sul processo di applicazione del colore. Questo personale modo di dipingere dà la sensazione che l’opera non abbia né un inizio né una fine e che il quadro sia dilatabile all’infinito. Le gocce, le chiazze e le macchie variano di spessore e si sommano le une alle altre. I grovigli filamentosi di colore sovrapposti generano un caos di segni e colori che rappresenta al meglio lo stato d’anima dell’artista nel momento della creazione; come se mettesse a nudo la sua interiorità formata da pulsioni e forze violente. PALI BLU (1953). Lavorando concitatamente intorno alla tela disposta a terra, Pollock la schizza con batuffoli di cotone, con pennelli da verniciatore e con pezzi di legno. Poi ci cola sopra fili sottili di colore che, a seconda del movimento della mano, si distribuiscono o si addensano, creando zone di maggiore o minore concentrazione. Quello che ne deriva è un caotico labirinto di segni-colore all’interno del quale ognuno immagina ciò che più desidera o teme. I pali blu del titolo corrispondono agli otto segmenti, variamente inclinati, che percorrono l’intero dipinto. Essi sono gli ultimi elementi geometrici residui intorno a cui si addensa il convulso assedio delle sgocciolature variopinte. La composizione che ne risulta può assomigliare a tante cose: la pianta di una città, la forma dei grattacieli, i pali della luce in un paesaggio. Ma per Pollock quell’immagine nasce semplicemente dal gesto liberatorio con cui vuole esprimere un mondo interiore tormentato e sofferente. |
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