POP ART AMERICANA
Negli anni ’50 e ’60, negli Stati Uniti ci fu un vero e proprio boom economico. Con il miglioramento degli standard di vita, crebbe la domanda di prodotti di ogni genere, da automobili e vestiti ad aspirapolveri e lavatrici.
La cultura consumistica borghese era alimentata da una pari ascesa dei mass media: pubblicità, riviste e televisione. Alcuni pittori, desiderosi di riconnettersi alla materialità della vita quotidiana, reagirono contro la nobile serietà dell’Espressionismo astratto, che eleggeva come soggetto la pittura stessa.
Mentre l’Informale si connotava per la forte componente intellettuale e per l’esasperazione del gesto soggettivo (che spesso manifestava un profondo disagio interiore). La Pop Art invece è maggiormente integrata nella cultura di massa. Matura negli anni ‘60 negli U.S.A. dopo la breve parentesi inglese.
Dopo l’Informale si sente la necessità di misurarsi con la civiltà tecnologica e con i suoi prodotti; con i nuovi tipi di rapporti tra l’uomo e il mondo e tra gli altri esseri umani, che i mass-media hanno provocato. Il salto è provocatoriamente traumatico perché dalle riflessioni elaborate sui significati artistici di materia e gesto dell’Espressionismo Astratto, si passa a proporre valori quotidiani e volutamente banali. Fu proprio l'anonima e meccanica Pop Art a sfidare e interrompere il pathos poetico degli espressionisti astratti e a vincere la battaglia, diventando lo specchio della società americana, consumista e ottimista.
Nel 1960 vari pittori cominciarono ad attingere a piene mani dall’immaginario della cultura popolare, liquidando ogni forma di astrazione e di gesto espressivo.
Il modo di operare prende spunto dall’immaginario di massa e da ciò che lo eccita: pubblicità, fumetti, oggetti di consumo, ritratti delle star. La Pop Art è un’arte di consumo e in quanto tale deve essere consumata, come qualsiasi altro prodotto di massa, uguale per tutti e da tutti fruibile. Quale elemento poteva rappresentare al meglio l’arte di massa se non gli oggetti appartenenti al mondo del commercio? E quindi si usano espressioni figurative ben riconoscibili e volutamente banali, suscettibili a essere riprodotte facilmente in serie.
Il soggetto viene manipolato secondo strategie diverse e ricondotto a una forma nuova di attenzione, ridandogli visibilità.
L’aggettivo “popular” (da cui deriva il nome) non è da intendersi come arte del/per il popolo, ma come arte legata alla massa e prodotta in serie; un’arte che parla il linguaggio che tutti conoscono, quello delle immagini. Visto che la massa non ha volto, l’arte deve essere il più possibile anonima, per poter essere accettata e compresa dal maggior numero di individui possibile.
L’artista non ha più spazio per un’esperienza soggettiva, ormai si configura come un manipolatore di immagini, oggetti e simboli già fabbricati a scopo industriale, economico o pubblicitario. L’artista pop ha quindi uno sguardo distaccato, vuole dare una fotografia della società americana del tempo, un'immagine riflessa che vuole essere completamente anonima perché non si prefigge lo scopo di criticare né di migliorare l'umanità.
Gli oggetti sono proposti come icone del nostro tempo, constatando la loro presenza invasiva nella vita di tutti (e invece la loro assenza nella cultura elitaria e nell'arte fino a quel momento). Si costruisce quindi una specie di mitologia del banale, essenza della realtà e incarnazione del sogno americano. La Pop Art vuole riconoscere il valore positivo degli oggetti kitsch come elementi comunque esistenti e fondamentali del nostro panorama urbano. Ne tenta il riscatto con tecniche di straniamento che gli diano nuova dignità estetica e che costringa a rivedere i nostri rapporti con le cose e a scoprirne o inventarne di nuovi. La ripetizione seriale, la scala abnorme degli oggetti, la riduzione delle immagini a fumetti, la scelta di temi e oggetti banali sono alcune delle caratteristiche della Pop Art (anche se ogni artista manterrà uno stile molto personale).
La Pop Art eleva l’oggetto a oggetto di culto, quasi mitico, ma contribuisce anche allo svuotamento dei modelli “alti” della cultura (i modelli generali di arte e di artista) per ottenere una percezione tranquillizzante della realtà. L’erosione delle barriere che separavano l’arte “alta” dalla pittura della cultura “bassa” di massa, trasformò ben presto gli artisti pop in uomini d’affari e le opere in brand.
Come nel Dadaismo, dunque l’oggetto ordinario è trasformato in opera d’arte. Ma in questo caso l’intento non è provocare, ma scegliere un oggetto nuovo, mai trattato dall’arte, capace di mostrare lo stile di vita americano. Non è una denuncia al consumismo, ma la sua constatazione ed esaltazione.
Le opere deridono e allo stesso tempo celebrano il consumismo di massa che imperversava negli Stati Uniti. Le motivazioni sono da riportare alla mercificazione, alla pubblicità ossessiva e al consumismo eletto come sistema di vita.
Entrando in gara col linguaggio aggressivo e impersonale del mass-media, la Pop Art sperimenta tecniche inedite: fotografie ritoccate, assemblage, collage.
La cultura consumistica borghese era alimentata da una pari ascesa dei mass media: pubblicità, riviste e televisione. Alcuni pittori, desiderosi di riconnettersi alla materialità della vita quotidiana, reagirono contro la nobile serietà dell’Espressionismo astratto, che eleggeva come soggetto la pittura stessa.
Mentre l’Informale si connotava per la forte componente intellettuale e per l’esasperazione del gesto soggettivo (che spesso manifestava un profondo disagio interiore). La Pop Art invece è maggiormente integrata nella cultura di massa. Matura negli anni ‘60 negli U.S.A. dopo la breve parentesi inglese.
Dopo l’Informale si sente la necessità di misurarsi con la civiltà tecnologica e con i suoi prodotti; con i nuovi tipi di rapporti tra l’uomo e il mondo e tra gli altri esseri umani, che i mass-media hanno provocato. Il salto è provocatoriamente traumatico perché dalle riflessioni elaborate sui significati artistici di materia e gesto dell’Espressionismo Astratto, si passa a proporre valori quotidiani e volutamente banali. Fu proprio l'anonima e meccanica Pop Art a sfidare e interrompere il pathos poetico degli espressionisti astratti e a vincere la battaglia, diventando lo specchio della società americana, consumista e ottimista.
Nel 1960 vari pittori cominciarono ad attingere a piene mani dall’immaginario della cultura popolare, liquidando ogni forma di astrazione e di gesto espressivo.
Il modo di operare prende spunto dall’immaginario di massa e da ciò che lo eccita: pubblicità, fumetti, oggetti di consumo, ritratti delle star. La Pop Art è un’arte di consumo e in quanto tale deve essere consumata, come qualsiasi altro prodotto di massa, uguale per tutti e da tutti fruibile. Quale elemento poteva rappresentare al meglio l’arte di massa se non gli oggetti appartenenti al mondo del commercio? E quindi si usano espressioni figurative ben riconoscibili e volutamente banali, suscettibili a essere riprodotte facilmente in serie.
Il soggetto viene manipolato secondo strategie diverse e ricondotto a una forma nuova di attenzione, ridandogli visibilità.
L’aggettivo “popular” (da cui deriva il nome) non è da intendersi come arte del/per il popolo, ma come arte legata alla massa e prodotta in serie; un’arte che parla il linguaggio che tutti conoscono, quello delle immagini. Visto che la massa non ha volto, l’arte deve essere il più possibile anonima, per poter essere accettata e compresa dal maggior numero di individui possibile.
L’artista non ha più spazio per un’esperienza soggettiva, ormai si configura come un manipolatore di immagini, oggetti e simboli già fabbricati a scopo industriale, economico o pubblicitario. L’artista pop ha quindi uno sguardo distaccato, vuole dare una fotografia della società americana del tempo, un'immagine riflessa che vuole essere completamente anonima perché non si prefigge lo scopo di criticare né di migliorare l'umanità.
Gli oggetti sono proposti come icone del nostro tempo, constatando la loro presenza invasiva nella vita di tutti (e invece la loro assenza nella cultura elitaria e nell'arte fino a quel momento). Si costruisce quindi una specie di mitologia del banale, essenza della realtà e incarnazione del sogno americano. La Pop Art vuole riconoscere il valore positivo degli oggetti kitsch come elementi comunque esistenti e fondamentali del nostro panorama urbano. Ne tenta il riscatto con tecniche di straniamento che gli diano nuova dignità estetica e che costringa a rivedere i nostri rapporti con le cose e a scoprirne o inventarne di nuovi. La ripetizione seriale, la scala abnorme degli oggetti, la riduzione delle immagini a fumetti, la scelta di temi e oggetti banali sono alcune delle caratteristiche della Pop Art (anche se ogni artista manterrà uno stile molto personale).
La Pop Art eleva l’oggetto a oggetto di culto, quasi mitico, ma contribuisce anche allo svuotamento dei modelli “alti” della cultura (i modelli generali di arte e di artista) per ottenere una percezione tranquillizzante della realtà. L’erosione delle barriere che separavano l’arte “alta” dalla pittura della cultura “bassa” di massa, trasformò ben presto gli artisti pop in uomini d’affari e le opere in brand.
Come nel Dadaismo, dunque l’oggetto ordinario è trasformato in opera d’arte. Ma in questo caso l’intento non è provocare, ma scegliere un oggetto nuovo, mai trattato dall’arte, capace di mostrare lo stile di vita americano. Non è una denuncia al consumismo, ma la sua constatazione ed esaltazione.
Le opere deridono e allo stesso tempo celebrano il consumismo di massa che imperversava negli Stati Uniti. Le motivazioni sono da riportare alla mercificazione, alla pubblicità ossessiva e al consumismo eletto come sistema di vita.
Entrando in gara col linguaggio aggressivo e impersonale del mass-media, la Pop Art sperimenta tecniche inedite: fotografie ritoccate, assemblage, collage.
ANDY WARHOL (1930-1987)
Costruisce il suo personaggio in modo quasi scientifico, secondo i tempi e i modi di una ben orchestrata campagna pubblicitaria, mediante la scelta dello pseudonimo e di un look eccentrico ed eccessivo. Andy Warhol incarnò la figura dell’artista pop sviluppando uno stile visivo che, come marchio di fabbrica, era riconosciuto anche dai non addetti ai lavori. Realizza immagini semplice e d’impatto, riconoscibili da tutti, spesso ripetendole in serie. Nelle sue opere usa il linguaggio della pubblicità perché secondo lui il pubblico comprende solo ciò che conosce. Seleziona elementi che erano già presenti e impressi nella mentalità del pubblico attraversi una pubblicità sempre più invasiva che ormai era diventata parte fondamentale della società stessa. Così facendo Warhol elimina l’aura intorno all’oggetto d’arte e la sua unicità, per trasformalo in un prodotto realizzato in serie. Gli oggetti del consumo di massa diventano dunque delle specie di feticci, cioè degli elementi simbolici da desiderare e in cui riconoscersi. Ma non solo gli oggetti sono fatti per essere consumati; con la stessa logica e nello stesso modo possono essere consumati anche i miti del cinema, della musica e della politica. Queste persone sono considerate più immagini viventi che esseri con cui comunicare, sono immagini che accompagnano e quindi influenzano la vita di tutti. Gli oggetti pop per eccellenza sono e restano comunque i cibi. Cibi quasi mai naturali e appetitosi, ma preferibilmente conservati, disidratati o surgelati. La serialità che usa Warhol nelle sue immagini è la stessa con cui i beni di consumo si presentano sugli scaffali dei supermercati. All’inizio dipingeva a mano libera poi, per lavorare con rapidità e creare molteplici copie, provò altri metodi, orientandosi prima agli stampi e agli stencil e poi alle tecniche di stampa commerciale. Warhol spesso iniziava il processo dipingendo una tela con colori marcati e contrastanti, poi vi serigrafava sopra la fotografia, creando così immagini incisive che poteva riprodurre con innumerevoli variazioni. Gli strati sottostanti di pittura e l’immagine stampata non erano allineati alla perfezione e questo, insieme alle saltuarie sbavature del processo di stampa, creava un’infinita varietà di immagini finali. La partecipazione emotiva è quindi ridotta al minimo e Andy Warhol stesso dichiarò: “Io dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina”. L’artista si limita a scegliere ed esaltare le immagini che ritiene rilevanti, non per il loro risvolto ideologico o ideale, ma perché ci accompagnano quotidianamente e quindi ci influenzano. Warhol, in tutte le sue creazioni, che vanno dalla grafica, al cinema, alla fotografia, interpreta il clima e le tendenze della società del suo tempo: il consumismo e la comunicazione di massa. Egli non sembra esprimere un giudizio, ma sfrutta, in maniera quasi beffarda i meccanismi della società dei consumi, rendendo se stesso e la sua arte un prodotto di consumo. Quindi le sue opere non ci parlano di oggetti o di persone, ma di immagini ripetute, di simulacri delle cose e della realtà. Perché in questa società l’immagine dell’oggetto è l’oggetto stesso. Warhol dipinge quindi ciò che vediamo ogni giorno, ma anche ciò che (persona o cosa) diventa oggetto di adorazione collettiva. Per lui l’arte va desacralizzata, perché non può essere espressione di pochi, ma deve arrivare a tutti, sfruttare la comunicazione di massa e imitare le immagini pubblicitarie. La vera rivoluzione, per Warhol, sarà quella di portare il supermercato nel museo e riprodurne la sua teoria colorata delle merci. MINESTRA IN SCATOLA CAMPBELL (1962). E’ un soggetto che Warhol dipinge in maniera ossessiva. Fece delle diapositive a colori di ogni barattolo, le proiettò e ne ricalcò i contorni. Le scatole sono stampate su di un fondo bianco per metterle in evidenza. La confezione rossa, strategico progetto di packaging pubblicitario, è ideale, infatti, per creare un’immagine iconica, raffigurata all’interno di uno spazio ridotto come quello del modulo di base. La strategia di ripetere in modo seriale un modulo identico crea un pattern compositivo ed estetico primitivo e molto potente che risulta suggestivo anche per un pubblico contemporaneo. L’opera diventa, quindi, una sorta di decorazione concettuale contemporanea che sfrutta il meccanismo ancestrale della moltiplicazione dell’immagine dell’oggetto desiderato. Con questa serie di opere Warhol diede un’ulteriore prova del fatto che il mondo della pubblicità era riuscito a elevarsi e a “contagiare” l’arte. Ritrovare, in un dipinto da museo, un prodotto da supermercato rende paradossalmente artistico il quotidiano o, al contrario, smitizza l’arte portandola al livello della massaia media che sta facendo la spesa. BRILLO BOXES (1964). È un’opera tridimensionale replicata attraverso multipli allestiti con installazioni ambientali. Sculture, propriamente, non sono; ready-made, alla maniera del dadaista Duchamp, neppure, perché non sono scatole originali (anche se identiche nelle dimensioni, nel colore, nella grafica). In questo senso, l’opera di Warhol si colloca sulla scia di quella, appena precedente, dell’artista new dada americano Jasper Johns. Lungi dall’essere un oggetto trovato e messo in mostra con un gesto nichilistico, è al contrario e letteralmente (visto che se ne aumentano le dimensioni) la magnificazione di aspetti della nostra vita, della vita della società di massa e della pubblicità che ci vuol dire: «Guarda come è bello il tuo mondo, guarda che splendore, come sono belle queste scatole». Osservando con attenzione, si scopre che si tratta di una riproduzione su legno dei cartoni che contengono le pagliette insaponate per i piatti, di grandezza leggermente superiore e di peso diverso. Inoltre il marchio originale delle Brillo è stato stampato in serigrafia ma a mano, una a una, tanto da presentare qui e lì alcune sbavature. È normale che la stampa industriale produca delle irregolarità solo che normalmente non vengono notate perché fanno parte della tecnica stessa con cui sono realizzate: non difetti, ma realtà di quel linguaggio. Le inesattezze di Warhol ci appaiono invece intenzionali e poetiche. C’è da notare inoltre che i colori della scritta, rosso, blu e bianco ha gli stessi colori della bandiera americana. Attraverso l’esposizione delle Brillo Box, Andy Warhol voleva trasmettere una sorta di “vuoto visivo” per esaltare l’estrema superficialità della società prospera in cui viveva e lavorava. Le scatole di detersivo accatastate e le Lattine Campbell disposte su una fila orizzontale come fossero su degli scaffali permettevano di proiettare immediatamente lo spettatore al supermercato. MARILYN (1964). Affascinato dalla bellezza, dalla celebrità e dalla morte (avvenuta misteriosamente a soli 36 anni), Warhol fu ispirato a creare una nuova serie di litografie basate su uno scatto pubblicitario di Marilyn: il risultato mise in discussione i concetti stessi di autorialità, maestria e originalità. Contro l’unicità del ritratto tradizionale, Warhol crea di Marilyn un’immagine infinitamente riproducibile. Il volto della diva viene quindi trattato come un prodotto industriale da riprodurre in serie secondo le esigenze di mercato. Il viso viene isolato dal busto, messo su uno sfondo monocromo e brillante (quasi come il fondo oro delle icone religiose). I lineamenti sono semplificati accentuando con campiture piatte di colori sgargianti occhi, bocca e capelli. La pelle diventa di volta in volta rossa, grigia, verde azzurra, marrone e fucsia. Labbra e denti sono coperti da un’unica macchia di colore, l’ombretto si allarga sugli occhi in modo esagerato, i capelli contrastano con il volto e con lo sfondo. I colori artificiosi esagerano il senso di energia, vita ed entusiasmo. In questa lunga serie di ritratti Warhol modifica il volto con colori accesi e campiture piatte, fino a ottenere un’icona nuova, forse più riconoscibile della stessa Marilyn. Così il mito di Marilyn Monroe non sta nella sua bravura o nella sua sensualità, ma nell’incalzante riproposizione della sua immagine da parte dei mezzi di comunicazione di massa. Nonostante l’uso di una tecnica di riproduzione in serie, ogni volto mostra una luminosità diversa e una colorazione imprecisa che ricorda la grafica scadente dei prodotti a basso costo. L’immagine viene serigrafata secondo il procedimento della quadricromia (usato anche nelle comuni riviste), ma nei vari passaggi di colore viene accentuato l’effetto “fuori registro” e quindi i contorni non coincidono perfettamente con le aree colorate. Queste variazioni e imperfezioni casuali nelle immagini ripetute aggiungono complessità e profondità. Il personaggio scompare e resta solo la sua immagine (una delle infinite possibili dall’abbinamento dei colori). L’infinita ripetitività e i colori (estremizzati e violenti) finiscono per eliminare del tutto l’espressività e renderla inumana e brutta. La sensualità di Marylin si dissolve nella moltiplicazione di uno sguardo vuoto e di un sorriso inespressivo. La riproduzione di varie immagini del volto di Marilyn su una scala così grande riecheggiava l’ossessione mediatica per l’attrice. La ripetizione ritmica inoltre separa l’immagine dalla vera identità della donna, svuota il volto di ogni significato, traducendolo in una pura immagine, portando alla trasformazione del viso in un marchio, in una merce, in una pubblicità martellante. La persona reale sembra quasi sparire dietro quella maschera colorata che la fa diventare un idolo fatto di pura apparenza. Questa serie di ritratti è da intendere quindi sia un omaggio che una critica al successo perché una simile ripetizione trasforma la donna in merce, sottolineando il massimo prezzo della celebrità. L’immagine di Marilyn che si ripete è una merce il cui valore non è dato dalla sua unicità, ma dalla possibilità di essere adattata ai gusti e alle preferenze dei consumatori, come se dietro all’immagine della pellicola cinematografica o dietro alle fotografie delle riviste non ci fosse una persona vera, con i suoi drammi e la sua solitudine. |
Per realizzare queste immagini, uguali, ma diverse tra loro, Warhol usa la tecnica della serigrafia. Si tratta di una forma di stampa a colori realizzata con un tessuto di seta fissato a un telaio. Il tessuto viene sottoposto a impermeabilizzazione in alcune parti, in modo da lasciar passare il colore solo dove si desidera e realizzare così un disegno o un motivo decorativo.
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CLAES OLDENBURG (1929 - )
“Sono per un’arte che tragga le sue forme direttamente dalla vita, che si intrecci e si espanda […] e sia pesante e grossolana, insipida, dolce e stupida come la vita stessa”. La quotidianità banale e consumista viene resa da Oldenburg monumentale, creando sculture pop, attraverso un’operazione di ready-made già utilizzata da Marcel Duchamp. Questi oggetti possiedono dimensioni maggiori rispetto agli originali. Sono costruiti con materiali artistici e inseriti all’interno di spazi museali che creano una cornice artistica intorno ad essi. Spesso, rappresentano cibi abbandonati su tavoli deserti. Claes Oldenburg utilizzò una colorazione artificiale e accesa per esaltare il loro aspetto ed evocarne il gusto nauseante. Oldenburg lavora a diverse serie di opere dove ricostruisce i prodotto merceologici usando materiali sintetici, lucidi, morbidi e tecniche stranianti come l’ingigantimento o il softness (in cui svuota gli oggetti della loro materia ed essi cadono e si raggrinziscono). Allestisce spesso bacheche in cui riunisce pezzi di cibo esposti nelle vetrine come richiamo pubblicitario (grandi fette di torta colorate, gelati, bistecche) di cui accentua la colorazione artificiale fino a renderli disgustosi. In una società dei consumi come quella statunitense, il cibo è proprio il primo elemento di consumo, di abuso ed enfatizzazione. Inoltre i prodotti alimentari esposti dalla pubblicità non sono mai decantati per le loro qualità, ma per le loro dimensioni, i loro colori e le loro confezioni. In un’altra serie di opere riproduce oggetti con stoffe imbottite (interruttori della luce, W.C., macchine da scrivere). Questi oggetti assumono quindi un aspetto molle e vengono privati della loro funzione d’uso. Facendo questo Oldenburg dimostra come si possano usare oggetti consueti e banali, deformarli e quindi renderli grotteschi e provocatori. Svuota gli utensili tecnologici della loro materia usuale, in modo che la loro pelle, priva di sostegno, si faccia raggrinzita e cascante. In questo modo li rende inutilizzabili e, allo stesso tempo, opere d’arte. In un’altra serie ancora di lavori, Oldenburg ingigantisce oggetti quotidiani facendogli assumere la dimensione di oggetti monumentali e posizionandoli in edifici e piazze pubbliche. Rende chiaro il messaggio secondo il quale il nostro mondo ha ormai fatto dell’oggetto di consumo, l’idolo che adoriamo più spesso. GELATI DA PASSEGGIO IN MORBIDO PELO (1963). Qui ironia e grottesco si fondono e la divertente vivacità dei colori è contraddetta dalla disgustosa “immangiabilità” che suggeriscono questi gelati. Quindi questi “gelati”, molli e grossi, sono curiosi e attraenti per la vista, ma vomitevoli per il gusto. Diventano un simbolo dell’eccesso del consumismo che arriva ad autodistruggersi, trasformando i suoi prodotti direttamente in immondizia. TOILETTE MOLLE (1966). Qui la trasformazione dell’oggetto avviene tramite la modifica della fisicità dell’arredo sanitario infatti, per come lo vediamo, pare costruito con una materia plastica, morbida e inconsistente. Questa trasformazione crea una maggiore ironia e fa sembrare l’oggetto un disegno animato. Il colore del sanitario è bianco mentre all’interno il blu rappresenta l’acqua contenuta nella conca. Pur partendo da un oggetto banalmente reale, Oldenburg stravolge il senso stesso della realtà, togliendo qualsiasi certezza anche alle forme più note. Un W.C. molle, anche se di grandezza naturale, è inservibile e il realismo delle forme è contraddetto dall’assurdità del materiale. |
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ROY LICHTENSTEIN (1923 – 1997)
A partire dal 1960 Lichtenstein iniziò a copiare tecniche di stampa industriali, utilizzando i puntini del retino tipografico (conosciuti come punti Ben-Day dal suo ideatore Benjamin Day) e a mescolare immagini frivole e quotidiane, dai fumetti alle pubblicità. Durante la sua carriera userà principalmente il linguaggio dei fumetti perché è convinto che nella società dei consumi, il fumetto sia l’unica forma letteraria superstite e capace di calamitare l’attenzione del pubblico, non per i suoi contenuti, ma per l’immediatezza dell’espressione. Con le sue opere riscatta i fumetti, prendendoli nelle loro manifestazioni più di cattivo gusto e pesanti (sceglie fumetti di serie B) e mostrandoci quali meraviglie estetiche siano celate nelle stampe. Parte dall’analisi di una qualsiasi vignetta, anche banale e poco significativa in sé, la sottrae alla serialità narrativa e ne ingigantisce a dismisura le dimensioni, riproponendocela in modo nuovo e inconsueto. Estrapolate dal contesto narrativo, queste immagini non hanno più un significato, ma puntano al loro fortissimo potere iconografico. Il fumetto produce un effetto di straniamento e diventa un’opera d’arte quasi astratta. Infatti i pensieri dei protagonisti contenuti nei baloon non veicolano più un significato, ma rimangono sospesi come pure icone grafiche. Il procedimento tecnico consiste nel proiettare il disegno originale sulla tela fino a ingrandirlo alla dimensione desiderata. Poi Lichtenstein ne ricalca le linee con colori a olio o smalti sintetici. Dentro ai contorni stende campiture di colore piatto e uniforme, annullando qualsiasi effetto di chiaroscuro. Le sue opere sono il trionfo della bidimensionalità e del linearismo flessuoso, dimostrandosi passivo alle immagini e icone ottenute dai mass-media e cercando di nascondere la sua mano. Ingrandendo a dismisura le vignette, mostra il retino tipografico con i puntini e quindi evidenzia la costruzione artificiale dell’immagine (che nelle dimensioni originali non si nota). I punti, ben visibili, sono quelli del Ben-Day e servivano a creare sfumature tonali nel processo di stampa a basso costo (usato per produrre fumetti in serie). All’inizio Lichtenstein dipingeva i punti a mano, poi si avvalse di stencil che riproducevano meglio la versione stampata. Desiderava dare ai quadri un aspetto impersonale, meccanico e di massa, privo di ogni traccia di espressione personale. Usa un numero limitatissimo di colori (tre o quattro oltre al nero) proprio come succede nei processi di stampa. Quasi sempre le protagoniste delle sue opere sono donne e derivando da immagini pubblicitarie obbediscono a cliché che le rendono tutte uguali: giovani, bianche, belle, sorridenti, con capelli ondulati e spesso con labbra socchiuse e seducenti. Un po' simili a gusci vuoti, ma proprio per questo accattivanti. M-MAYBE (1965). Apparentemente questo dipinto ha un titolo incomprensibile: fa riferimento semplicemente alle prime parole del relativo fumetto che, estrapolate dal contesto, non hanno alcun senso compiuto. La bella ragazza, infatti è molto agitata e pensa:"M-Maybe...". Il colore del volto della donna è ottenuto tramite l’ordinato accostamento di puntini rossi, secondo quanto normalmente avviene nel procedimento tipografico di stampa. Il numero dei colori impiegati è limitatissimo, tre o quattro al massimo, oltre al nero, proprio come avviene nei processi di stampa. Nel fortissimo ingrandimento la reticolatura (impercettibile nelle dimensioni normali) è estraniante perché diventa qualcosa di diverso e quasi di astratto. I mezzi tecnici della pittura sono dunque subordinati a quelli della grafica, il che è la confessione di come l'arte, secondo Lichtenstein, è figlia dei consumi e della comunicazione di massa. I mezzi tecnici della pittura diventano subordinati a quelli della grafica perché questa è l’unica arte possibile nella società dei consumi e della comunicazione di massa. |
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